La locomotiva tedesca va. Contro le regole

di Dario Rivolta * –

europa germania grandeNel 1995 il surplus commerciale tedesco era poco più di dieci miliardi degli attuali euro, e circa così si mantenne fino al 2000. Nel 2001 l’attivo commerciale con l’estero era già attorno ai quaranta trilioni, nel 2007 salì a 130 e, calato leggermente dopo l’inizio della crisi, oggi sfiora invece 200 miliardi, diventando così il più grande esportatore netto al mondo.
Negli stessi anni la Francia è partita con un saldo positivo attorno ai venti miliardi, per cominciare poi a scendere e avere oggi un passivo commerciale vicino ai trenta.
All’Italia è andata leggermente meglio: partita nel ’95 con un saldo di poco superiore al pareggio, è oggi in positivo per quasi cinquanta miliardi. Spagna, Grecia e Portogallo negli stessi anni hanno soltanto peggiorato la loro bilancia commerciale, in sostanza sempre negativa o vicina allo zero.
Nonostante la crisi che ha colpito il mondo e l’Eurozona in particolare, la Germania continua a vedere il mercato europeo assorbire la gran parte delle proprie esportazioni anche se, dal 2005 a oggi, il resto del mondo (principalmente Europa dell’est, Usa e Cina) è diventato gradualmente il suo maggiore mercato. Il sorpasso è avvenuto intorno alla metà del 2009 ed è andato incrementandosi perché la svalutazione dell’euro ha favorito molto più il prodotto tedesco di quello di ogni altro Paese con la stessa valuta.
Se l’Europa fosse stata un unico Paese e la parola “Unione” fosse stata qualcosa di più di un artifizio retorico, anche le regioni meno efficienti (o meno sviluppate) del continente avrebbero beneficiato della ricchezza tedesca ma, com’è sotto gli occhi di tutti, così non è stato.
Che i prodotti tedeschi godano generalmente di un’immagine migliore di quella degli altri concorrenti europei è risaputo e che l’efficienza del sistema Paese teutonico sia superiore a quello di tutti gli altri è altrettanto noto. Purtroppo per questi ultimi, non potrà essere solo con i sacrifici che miglioreranno le condizioni di un popolo e, tanto meno, non saranno l’invidia o il risentimento a far cambiare le cose.
Nelle condizioni del passato, con diverse valute, ogni Paese avrebbe anche se magari parzialmente rimediato al dislivello produttivo e commerciale ricorrendo alla svalutazione della propria moneta, rendendo così più costose le importazioni e favorendo le esportazioni. Al contrario, all’interno di un mercato con la stessa valuta l’unico rimedio sarebbe di consentire che le zone più ricche spendano tanto da dare così uno sfogo anche ai prodotti delle zone meno efficienti. E’ esattamente quello che la Germania dovrebbe fare ma che si rifiuta di mettere in atto.
I tedeschi continuano a opporsi a un innalzamento dell’inflazione e a mantenere i propri salari bassi (in media) rispetto al costo della vita. Qualche critico della Germania sostiene che, in questo modo, il maggior prodotto di esportazione non siano in realtà i prodotti meccanici e metallurgici bensì la disoccupazione. Occorre precisare che la grande ricchezza che arriva in Germania, oltre a non essere utilizzata per incrementare la spesa locale attraverso le banche, diventa credito per i consumatori degli altri Paesi europei, contribuendo così a creare presenti e future bolle finanziarie. Esattamente ciò che è successo in Grecia.
Nel 2013 la Commissione Europea dichiarò che la politica economica tedesca era contraria alle regole europee e annunciò che sarebbe intervenuta. Ciononostante, da un lato a causa del potere politico esercitato da Berlino e dall’altro per l’atteggiamento supino e servile degli altri grandi Paesi europei, niente è accaduto. Nonostante l’invito ad aumentare la spesa pubblica e gli annunciati piani d’investimento nel settore energetico, del trasporto pubblico e dell’infrastruttura digitale, il report di maggio del Fondo Monetario Internazionale conferma che “gli aumenti previsti sono troppo moderati”.
Anche l’introduzione a gennaio di una soglia di salario minimo non è bastata né basterà a modificare sensibilmente il potere di spesa dei tedeschi. Solo un incremento più importante e l’accettazione di un aumento dell’inflazione potrebbero dare qualche risultato. Tuttavia gran parte dell’opinione pubblica e il partito locale antieuro rendono difficile al governo di Berlino di trovare il coraggio lungimirante per procedere nella direzione chiesta da Bruxelles e dal Fmi. La Bundesbank è perfino arrivata a opporsi alla decisione del governatore della Bce Mario Draghi di attuare l’annunciato quantitative easing, e ciò nonostante il conseguente indebolimento dell’euro abbia ulteriormente favorito le esportazioni tedesche sui mercati internazionali.
Detto tutto ciò, per completare il quadro occorre tuttavia aggiungere alcune informazioni che non devono essere taciute: a) il costo del lavoro in Germania, paragonato a quello degli altri Paesi europei, è già sensibilmente alto e non è affatto detto che un aumento dei salari porti automaticamente a un maggiore desiderio di spesa. b) anche in Germania, come nel resto d’Europa, la popolazione sta invecchiando e l’incertezza e la preparazione alla pensione spingono più a risparmiare che a spendere, c) le difficoltà all’esportazione di Paesi come Grecia e Portogallo non sono cominciate con l’introduzione dell’Euro (anche se da quella data sono peggiorate) ma sono, da sempre, dovute a una carenza di infrastrutture, a un mercato del lavoro ingessato e (cosa che tocca anche all’Italia) a sprechi e corruzione dilagante
In conclusione, nonostante le colpe della Germania ci siano e siano evidenti, non possiamo attribuire solo ai tedeschi la responsabilità di quanto sta accadendo, anche se una vera solidarietà europea imporrebbe a Berlino un atteggiamento quasi opposto alle posizioni attualmente cavalcate. Con ciò non si vuole sostenere che i Paesi più deboli non debbano attuare riforme assolutamente necessarie ma che tali riforme, anche se realizzate, non basterebbero a ristabilire un giusto equilibrio tra la potenza industriale tedesca e gli altri.
Il problema è grave perché, stando le cose come oggigiorno e di chiunque siano le responsabilità, tutti sanno che i Paesi in difficoltà non sono, a breve, in grado di recuperare il terreno perduto e ciò che li aspetta è solo un peggioramento della loro situazione. Solamente se cambierà l’atteggiamento tedesco si potrà innescare una via d’uscita virtuosa. L’alternativa contraria porterà, come unico risultato, che i partiti antieuro e anti-Europa avranno ovunque seguaci sempre più numerosi e motivati creando, alla fine, le premesse per la dissoluzione di tutto il mercato unico e quindi dell’Europa.
L’Unione Europea fu costruita con l’implicita promessa che la libera circolazione di beni, servizi, capitali e popolazioni avrebbe portato prosperità a tutti gli stati membri. Questo meccanismo è sembrato funzionare per circa cinquanta anni ma oggi si vede che il gigante aveva i piedi d’argilla.
Qualunque politico europeo intellettualmente onesto sa che nessuno dei Paesi del Vecchio Continente, nemmeno la Germania, potrà mantenere da solo, in un mondo globalizzato, il dovuto peso politico internazionale e l’attuale elevato standard di vita. Se abbiamo il coraggio di non farci condizionare dagli umori del momento e dalla demagogia, dobbiamo prendere atto che è giunta l’ora non di arretrare, bensì di rilanciare con forza e determinazione il cammino verso l’unione politica ben oltre a quella economica. I lungimiranti Padri Fondatori avevano la statura politica per indirizzarvi i sentimenti delle loro popolazioni. Occorre, anche ai nostri giorni, trovare governanti forti e capaci di guardare al domani smettendo di essere solo piagnucolose vittime di negativi fatti contingenti.

* Dario Ricolta, già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.