La magistratura egiziana: potere indipendente o longa manus del regime?

di Mauro Saccol *

El-zind ahmed​La tragica uccisione del ricercatore Giulio Regeni ha inevitabilmente portato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sulla situazione politica egiziana e, in particolare, sulle violazioni dei diritti umani che, a partire dal colpo di stato militare di Abdel Fatah al-Sisi, hanno raggiunto livelli perfino superiori rispetto alla presidenza Mubarak. In particolare, la repressione delle opposizioni prosegue su vasta scala, il numero di giornalisti in carcere è via via aumentato, parallelamente alle restrizioni della libertà di stampa, mentre le sparizioni forzate di studenti e giovani hanno assunto proporzioni preoccupanti negli ultimi mesi. L’elezione di un Parlamento sostanzialmente leale ad al-Sisi ha contribuito a rafforzare il potere nelle mani della casta militare che, dal 1952, governa il Paese con la forza.
​Tuttavia, negli ultimi mesi, diversi indizi hanno indicato come il regime instaurato dall’ex-generale abbia potuto consolidarsi contando anche sull’appoggio di un’istituzione fondamentale: la magistratura. Sulla base della retorica dell’unità nazionale, e la necessità di ricompattare il paese al fine di creare una stabilità che favorisse la ripresa economica, la magistratura è stata a più riprese accusata di rappresentare la longa manus del regime, ed il procuratore generale Hisham Barakat è stato brutalmente assassinato in un attentato nel giugno scorso.
Tali accuse non sembrerebbero prive di fondamento. In generale, infatti, si possono individuare tre filoni che contribuiscono a spiegare come il potere giudiziario egiziano non sia completamente indipendente. In primo luogo, l’enorme potere politico dell’establishment militare; secondariamente, alcune caratteristiche endemiche del sistema giudiziario stesso; infine, la legislazione sulle nomine dei giudici e dei procuratori, che permettono all’esecutivo di interferire frequentemente nell’operato del potere giudiziario.
​Per quanto riguarda il potere delle forze armate, esso si esprime attraverso il ricorso a processi in tribunali militari nei confronti di civili. Dal Luglio 2013 tale fenomeno è aumentato esponenzialmente, tanto che la magistratura civile sembra confinata ad un ruolo secondario. La stessa Costituzione del 2014, all’articolo 204, stabilisce come i civili possano essere processati da tribunali militari in caso di attacchi a personale o strutture delle forze armate, mentre un decreto presidenziale dell’ottobre 2014 ha esteso la giurisdizione militare su tutte le strutture pubbliche e vitali.
​In particolare centinaia tra membri, sostenitori – o presunti tali – dei Fratelli Musulmani, inclusa la Guida suprema Muhammad Badie, sono stati condannati a morte nell’aprile 2014, in base ad un processo sommario. Nel maggio 2015 altri 94 membri sono stati arrestati sulla base di varie accuse, mentre il 17 maggio l’ex-presidente Mohammed Morsi – insieme ad altre 105 persone – è stato condannato alla pena capitale con l’accusa di aver favorito una maxi-evasione dal carcere di Wadi al-Natroun e di aver trafugato documenti segreti all’estero. Il carattere massivo di tali sentenze è stato condannato da più parti come farsesco e ha indotto ad una prima e importante riflessione sulla reale indipendenza della magistratura. Difatti, critiche sono piovute sulla superficialità delle indagini e delle testimonianze. A riprova di ciò alcuni degli individui condannati a morte si trovavano già in carcere quando è avvenuto l’episodio di cui sono stati incriminati.
Un ulteriore elemento che contribuisce a minare l’indipendenza della magistratura è la politicizzazione della stessa. In particolare nel mese di marzo 2015 41 giudici sono stati forzatamente sospesi dalla Corte d’Appello del Cairo a causa del loro presunto sostegno alla Fratellanza musulmana quando, in realtà, tali giudici avevano rilasciato un comunicato ufficiale in cui criticavano la deposizione del presidente Morsi per mano dei militari. Nonostante tale sentenza si scontri con l’articolo 8 dei Principi basilari dell’Indipendenza della Magistratura delle Nazioni Unite, il quale stabilisce come anche ai giudici è garantita la libertà di opinione, espressione e associazione nei limiti dell’imparzialità che richiede la professione, essa si inserisce all’interno del quadro attuale egiziano. Alcune organizzazioni dei diritti umani infatti ne hanno criticato il carattere politico, indicando come l’obiettivo di tale provvedimento fosse inviare un monito ai giudici con opinioni dissenzienti rispetto alla linea imposta dal regime.
​In tale contesto si colloca anche la scelta del ministro della Giustizia, Ahmed al-Zind. In seguito a dichiarazioni classiste e discriminatorie che hanno portato alle dimissioni del precedente, il presidente al-Sisi ha nominato al-Zind, figura legata all’establishment militare, a cui ha dimostrato lealtà in varie occasioni, contrario a ogni istanza di riforma del sistema giudiziario e famoso per un dichiarazione in cui affermava che “i giudici sono i padroni e il resto gli schiavi”. Inoltre nel 2012 al-Zind si era apertamente dichiarato a favore del nepotismo all’interno della magistratura, sostenendo come “non [si sarebbe smesso] di nominare i figli dei giudici, che piacesse o meno alle persone”.
​Proprio quest’ultimo punto rappresenta un ulteriore colpo all’indipendenza della magistratura egiziana. Difatti il nepotismo all’interno dell’istituzione è diffuso, tanto che è pratica comune nominare figli di giudici, anche con un curriculum universitario non brillante. Questo, di conseguenza, comporta una svalutazione dello stato di diritto, poiché le competenze legali e giuridiche non costituiscono un criterio fondamentale per l’accesso alla posizione. In tale contesto, si comprende come la magistratura possa essere influenzabile dal contesto politico e dalla linea perseguita dal regime, specialmente qualora quest’ultimo sia di carattere autoritario come nel caso egiziano. Accanto al nepotismo, Maha Azzam, membro del Consiglio rivoluzionario egiziano a Londra (organo sorto dopo il golpe del 2013), sottolinea come la corruzione rappresenti un elemento che impedisca una reale indipendenza della magistratura.
​Infine, gli sforzi compiuti da Hosni Mubarak per rendere il sistema giudiziario innocuo e leale al proprio regime protraggono i loro effetti anche nell’attuale periodo. In particolare, per stroncare sul nascere la possibilità di una magistratura più indipendente, fu favorito il reclutamento all’interno dell’istituzione giudiziaria di laureati dell’Accademia di polizia – e, al contempo, proibito l’ingresso nella magistratura di giudici appartenenti a gruppi di opposizione. Inoltre, casi che coinvolgevano gli interessi del regime venivano – e vengono tuttora – affidati a magistrati compiacenti. Infine il ministro della Giustizia nomina i presidenti delle corti più importanti, i quali a loro volta compongono il Consiglio Supremo della Giustizia, un organo che si occupa degli stipendi e dei trasferimenti dei giudici e, di conseguenza, permette al regime di controllare l’operato dei giudici e interferire nella carriera dei giudici meno compiacenti. Il ministro della Giustizia è inoltre incaricato anche della nomina del procuratore generale e dei pubblici ministeri, fatto che contribuisce all’aumento dell’interferenza dell’esecutivo nei confronti del potere giudiziario.
​Sulla base di tali elementi, si può comprendere l’assoluzione di Mubarak nel processo che lo vedeva imputato per l’uccisione di centinaia di persone durante la Rivoluzione del 2011 o quella nel processo per corruzione, così come la mancanza di indagini sulle torture commesse sia durante il regime mubarakiano sia in seguito al golpe del 2013. Considerata la fondamentale importanza di una magistratura indipendente all’interno di un sistema democratico, si può ben comprendere come il regime egiziano abbia ripreso la strada che pareva essere stata abbandonata nel 2011. Nonostante i moti rivoluzionari, la mancata persecuzione dei crimini compiuti durante la presidenza di Mubarak e il carattere politico di alcune sentenze minano la credibilità del sistema egiziano. Inoltre, corruzione e nepotismo, uniti all’interferenza del potere esecutivo, contribuiranno negli anni a venire a rendere problematica la transizione verso un sistema democratico. Le uccisioni del procuratore generale Hisham Barakat e di alcuni giudici nel Sinai potrebbero rappresentare un segnale lanciato da alcuni gruppi estremisti di opposizione: fintanto che la magistratura viene individuata come complice del regime, difficilmente una transizione democratica e pacifica sarà possibile.

Nella foto: il ministro della Giustizia egiziano Ahmed al-Zind.

* Mauro Saccol, PhD Democrazia e Diritti Umani – Università di Genova.