di Marcello Beraldi –
Ancora una volta, la Storia recente ci offre il desolante spettacolo di “iniziative di pace” che hanno il sapore amaro dell’imposizione e dell’interesse strategico, piuttosto che della giustizia e della risoluzione profonda dei conflitti. Le manovre annunciate in pompa magna dalla Casa Bianca si confermano esercizi di potenza, dove la diplomazia è un orpello e la vera leva è l’uso strumentale della forza e della minaccia. Il risultato? Tregue fragili, che lasciano intatte le radici esistenziali delle ostilità e aggravano il disagio globale.
Medio Oriente: la tregua come congelamento delle ingiustizie.
Abbiamo osservato questo copione, fin troppo familiare, sia nello scontro tra Iran e Israele sia, con esiti ben più tragici, a Gaza. Nel primo caso, l’intervento americano ha significato prima l’armamento di una delle parti per colpire (il programma nucleare iraniano), poi l’intestazione di una pace che non ha risolto nulla, lasciando accese le braci della contesa. La mossa, in sostanza, è stata un’ennesima dimostrazione di come la “stabilità” americana spesso coincida con il congelamento unilaterale delle tensioni, non con il loro superamento.
A Gaza, la dinamica si è fatta più violenta e moralmente insostenibile. La tregua imposta da Trump è stata un atto di puro potere coercitivo. L’America ha usato la sua influenza, in quanto principale fornitore di armi di Tel Aviv, per indurre Israele ad accettare uno stop, costringendo al contempo Hamas con la minaccia esplicita di supportare l’annientamento totale dei Palestinesi. Ciò che è agghiacciante è la totale assenza di sforzi per dirimere le ragioni secolari del conflitto: l’occupazione illegale dei Territori Palestinesi, l’ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania e la fine del blocco sulla Striscia di Gaza. Il conflitto, deragliato verso un genocidio di proporzioni inumane, è stato messo in pausa, ma la violenza non è cessata: i bombardamenti su Gaza continuano, sebbene ridotti, e i soprusi in Cisgiordania, accompagnati da misure legislative come la proposta di annessione della West Bank da parte della Knesset, non accennano a diminuire. La fragilità di questa “pace” è destinata a palesarsi in tutta la sua drammaticità non appena si tenterà di applicare la seconda parte dell’Accordo.
Ucraina: la prova di forza e il “congelamento alla coreana”.
Il teatro della guerra Russo-Ucraina è l’ultimo nel mirino delle ambizioni pacificatrici sui generis di Donald Trump. Lo stallo sul fronte, l’assenza di avanzate significative russe e la difficoltà ucraina a riconquistare posizioni, uniti all’arrivo della stagione fredda e ai crescenti problemi energetici di Kiev, creano un momento propizio per un cessate il fuoco imposto.
La questione è, ancora una volta, l’imposizione di una soluzione che scontenta le parti ma serve gli interessi della potenza egemone. Putin chiede la cessione di quattro province, mentre gli USA sembrano propendere per un congelamento del fronte “alla coreana”. L’America, pur non avendo gli strumenti di coercizione diretti di cui dispone in Medio Oriente, può muovere le sue pedine: la minaccia di sanzioni ulteriori e, soprattutto, la fornitura di missili a lunga gittata.
Questi missili rappresentano una drammatica ultima frontiera dell’escalation. Potrebbero, da un lato, indurre Mosca a desistere da una sirianizzazione del conflitto, ma dall’altro rischiano di essere l’elemento decisivo per un inasprimento e allargamento geografico della guerra, con il fantasma della minaccia nucleare russa che incombe.
Ciò che emerge è una leadership americana cinica ma efficace nel muovere i fili, e una Ucraina stremata – a corto di uomini e con l’inverno alle porte – che, nelle parole del suo Presidente Zelensky, sembra essersi rassegnata all’idea di una “soluzione alla coreana”, un clamoroso passo indietro rispetto all’intransigenza di non cedere “neanche un centimetro di territorio”.
L’Europa, la Cenerentola irrilevante.
In questo scontro tra titani, o meglio, tra il Tycoon e l’Orso, la figura più patetica è quella del Vecchio Continente. L’irrilevanza totale dell’Europa è un dato di fatto.
I burocrati di Bruxelles si limitano a due azioni: tagliare relazioni economiche con Mosca (che ha già trovato canali alternativi in Asia) e intraprendere un programma di riarmo dispendioso, ambiguo e pericoloso. L’Europa non è in grado di attivare proposte negoziali credibili né di sostenere l’Ucraina in modo determinante e coeso.
Questo disagio politico rischia di preludere a una debacle storica. L’eventuale vittoria di Trump, intesa come l’imposizione della sua “pace”, avverrebbe a spese dirette dell’Europa, che si troverebbe a passare dalla condizione di vassalla a quella di suddita. Con un’economia devastata dalle mutate condizioni geopolitiche e una credibilità azzerata, l’Unione Europea non riesce a essere attore protagonista sulla scena globale, limitandosi a recitare il ruolo della Cenerentola in scenari in rapido mutamento.
La lezione, amara, è che l’Europa non ha ancora acquisito né la sovranità politica né la capacità militare necessarie per tutelare i propri interessi. Finché continueremo a delegare la nostra sicurezza e la nostra politica estera a Washington, saremo condannati a subire le conseguenze delle altrui manovre di potenza. E le “tregue” imposte con la forza non faranno che acuire le nostre ferite, lasciando le ingiustizie intatte sotto una cenere destinata a riaccendersi in modo ancora più violento.












