La situazione e i diritti civili del popolo curdo

di Ercolina Milanesi –

Tutte le bambine e i bambini delle elementari in Turchia, ogni giorno, devono recitare, all’inizio delle lezioni, questa frase: “Sono turco, onesto e gran lavoratore. Io sono turco, io sono retto, sto lavorando duro, il mio principio è di difendere i minori e di rispettare gli anziani, di amare il mio Paese e la mia nazione, molto più di me stesso, la mia legge, di crescere e di andare avanti. O supremo Ataturk, creatore del nostro quotidiano, giuro che camminerò ininterrottamente sulla via che hai aperto, sull’obiettivo che hai definito e sugli ideali che hai fondato. Lascia che la mia esistenza sia subordinata all’esistenza turca. Felice è colui che può chiamarsi turco”. Al di là dei quattromila villaggi kurdi distrutti negli anni ’90, dei milioni di sfollati che sovrappopolano le città kurde e turche, delle migliaia di detenuti politici, delle centinaia di sindaci e attivisti dei diritti umani in carcere solo per aver parlato in kurdo, del ritrovamento di fosse comuni, questa “litania”, che anche i bambini kurdi sono costretti a dire a memoria e a ripetere quotidianamente, è la prima e più significativa violazione dei diritti di un popolo, i kurdi, costretti, loro malgrado, fin dai primi anni di vita a dirsi turchi, cioè come coloro che impunemente li hanno massacrati e continuano a farlo. Tutte le violazioni dei diritti umani di questo popolo fiero, senza una patria, derivano da questo: la “panturchizzazione”, inserita nella costituzione e fondamento dello Stato. A questa nazionalizzazione spinta all’estremo si aggiunge il grande potere che hanno i militari, i quali detengono, oltre al controllo dell’esercito, anche il potere esecutivo (per la Costituzione del1982, inseguito all’ultimo golpe, un consiglio di cinque persone, due civili e tre militari, ha l’ultima parola su tutto ciò che concerne la sicurezza dello Stato) e quello economico, perché si sono costituiti in una lobby dal nome “Oyak” che possiede imprese e banche, senza pagare le tasse. È evidente che chi rivendica la propria lingua, le proprie tradizioni, la propria cultura e tutto ciò che rende i kurdi un popolo, non trova posto in Turchia. Chi non diventa “turco di montagna”, come i turchi chiamano i kurdi, è emarginato e considerato separatista, con tutti i problemi conseguenti».