di Giovanni Caruselli –
L’insicurezza alimentare nel 2023 colpiva ancora 733 milioni di persone. Secondo la Fao, e altre agenzie dell’Onu, un individuo su undici (in Africa uno su cinque) ha una alimentazione precaria che può pregiudicare il suo sviluppo intellettuale e sociale. Fra i dodici obiettivi che dovrebbero essere raggiunti nel 2030 dalla comunità mondiale vi è quello della fame zero, ma la soluzione del problema in questi ultimi anni sembra essere lontana e il progresso verso la meta appare in stallo. La pandemia di Covid, con le crisi che ad essa correlate, ha interrotto un percorso ragionevolmente virtuoso e riavvicinato i dati del problema al periodo 2008/2009. Solamente l’area dell’America latina, l’area brasiliana e quella argentina, con i Paesi contigui, hanno vissuto un miglioramento dell’alimentazione che potrebbe portare al raggiungimento dell’obiettivo prima detto. Quali le cause del problema e le difficolta nella sua soluzione? In primo luogo le guerre di piccole e grandi dimensioni che interrompono le linee di rifornimento di generi alimentari di base. L’attuale conflitto in Ucraina, essendo i due protagonisti fra i maggiori produttori ed esportatori di grano al mondo, costituisce una costante minaccia al regolare commercio e facilita la speculazione determinata dagli accaparramenti e da manovre finanziarie che giocano sull’insicurezza dei rifornimenti.
A ciò si sono aggiunti nel 2023 le conseguenze del riscaldamento globale, ovvero le numerose crisi idriche, la siccità, i cicloni che hanno distrutto intere coltivazioni per migliaia di ettari e le inondazioni che hanno invaso i magazzini rendendo inservibili le scorte. Il rapporto SOFI (Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione), realizzato dalle cinque più importanti agenzie dell’Onu per l’alimentazione e presentato a Rio de Janeiro in questi giorni, rileva che oltre alle persone colpite da vere e proprie carenze alimentari devastanti, occorre considerare che più di 2 miliardi di persone vivono in una condizione di insicurezza alimentare moderata e grave. Può apparire paradossale che ciò accada proprio nelle aree rurali, dove il cibo si produce, ma non ci si stupisce se ricordiamo le frequenti rivolte contadine che hanno costellato quasi tutti i secoli del secondo millennio. Il grano, prima di tutto, era trasportato nei mercati urbani dove era venduto non solo per il consumo immediato, ma anche conservato nei magazzini in caso di crisi. Si è detto e scritto che le mura che circondavano le città medievali proteggevano certamente dai nemici armati, ma molto spesso anche da folle di affamati che andavano all’assalto dei magazzini. Episodi di questo genere si ebbero anche durante la Rivoluzione Francese.
I 76 miliardi di dollari erogati annualmente fra il 2017 e il 2021 non hanno migliorato di molto la situazione, dal momento che gli investimenti nei Paesi poveri appaiono particolarmente rischiosi e poco remunerativi. Rafforzare la sicurezza dei piccoli e medi produttori agricoli e eradicare le cause della precarietà è molto difficile nel caso delle conseguenze del riscaldamento globale. Occorre trovare e moltiplicare sementi più resistenti al caldo e al freddo, costruire vie d’irrigazione che resistano alla violenza dei fenomeni atmosferici, diversificare le colture, creare fondi che possano essere tempestivamente utilizzati in caso di catastrofi naturali magari attraverso sistemi assicurativi etc. Si tratta di miliardi di dollari e non è facile reperirli.
Il presidente del Brasile Lula, al suo terzo mandato, ha ottenuto dai Paesi del G20 il consenso alla creazione della Alleanza Globale contro la Fame, un organismo al quale hanno già aderito diversi Paesi fra cui l’Italia, e che opererà coordinandosi con la Banca Mondiale. Più difficile appare la proposta di tassare del 2% i multimiliardari del pianeta per finanziare le iniziative più urgenti. Gli Stati Uniti e altri Paesi si sono mostrati piuttosto restii a sostenere un’imposizione di questo tipo, benché le donazioni filantropiche in passato abbiano superato perfino gli stanziamenti statali. Ciò perchè talvolta la ritrosia dei Paesi ricchi non è determinata da mancanza di sensibilità per le condizioni di chi soffre la fame. Ci sono anche ragioni che potremmo definire ideologiche che la determinano. Ad esempio si sostiene la tesi che ciascun Paese deve trovare in qualche modo le risorse per emanciparsi e non deve abituarsi a calcolare nei suoi bilanci l’aiuto dei Paesi ricchi. Si accenna a una presunta scarsa propensione all’impegno lavorativo che sarebbe tradizionale in alcune culture, a quello stimolo per l’autorealizzazione che sarebbe centrale nel raggiungimento del benessere nella civiltà occidentale. Tuttavia tali teorie non trovano riscontro negli studi più qualificati in materia e sembrano frutto di idee generiche e pregiudiziali che sarebbe ora di abbandonare.