Le mosse di Trump in oriente

di Dario Rivolta * –

Un recente articolo di Foreign Affairs titolava “Trump è il miglior asset di Pechino”. A prima vista sembrerebbe un paradosso, ma se si guardano con attenzione le sue mosse in politica internazionale diventa difficile contestare quell’affermazione. Di là da quelle che sono le sue intenzioni, ogni sua azione sta contribuendo a pregiudicare l’immagine americana nel mondo e a favorire proprio il Paese che sembrerebbe essere il suo principale obiettivo.
Partiamo dalla sua decisione di abbandonare il Trans Pacific Partnership (TPP). Si trattava di un accordo che univa i mercati ben 12 Stati che si affacciano sul Pacifico e che, nelle intenzioni di Obama che l’aveva intrapreso, mirava a creare condizioni di libero mercato e regolamenti commerciali esclusivi tali da mettere oggettivamente fuori gioco le ambizioni cinesi su quelle aree.
I negoziati erano già molto avanzati e qualche Paese aveva già superato eventuali contestazioni interne quando arrivò la decisione contraria di Trump. Si sa, e lui non l’ha mai nascosto, che preferisce negoziazioni bilaterali piuttosto degli accordi collettivi perché in tal modo può far pesare maggiormente il peso specifico del proprio Paese nei confronti di qualunque altro. Purtroppo per lui, uscire da quell’intesa e trattare individualmente con ogni Stato i problemi dell’equilibrio della bilancia commerciale ha innescato nei già benevolenti alleati una forte diffidenza sull’affidabilità degli Stati Uniti e sull’esclusività del precedente rapporto. Sia Corea del Sud che Giappone, messi sotto ricatto, han dovuto fare buon viso a cattiva sorte e hanno accettato di scendere a nuovi patti, accettando anche dei sacrifici. Nel frattempo però tutti gli altri undici Paesi che avevano sottoscritto il pre-accordo hanno deciso di continuare sulla strada prefissata e hanno dato vita a un Comprehensive and Progressive Agreement for Trans Pacific Partnership cui la Cina ha già manifestato l’interesse di aderire. La stessa Cina che Barak Obama sperava di emarginare e che Trump ha rimesso in campo sta anche sottoscrivendo una nuova intesa allargata a Paesi del sud Est asiatico. Si tratta della Regional Comprehensive Economic Partnership che, oltre a Pechino, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia, includerà ben 10 altri Stati già membri dell’ASEAN. L’India non ha ancora deciso se farne parte causa la paura di essere invasa da prodotti cinesi ma, di fatto, si sta comunque parlando di quello che, se ratificato in questo 2020, diventerà il più grande blocco commerciale del pianeta.
Anche lo storico rapporto con le Filippine, che datava dalla fine della guerra ispano-americana quando gli USA le conquistarono, ora è a rischio. Duterte, l’attuale presidente, non è certo un tipo facile e tantomeno un uomo rispettoso della democrazia e dei diritti umani, ma là sta e continuerà a restare fino a che la sua attuale popolarità tra i connazionali non dovesse diminuire. Ebbene, stanco di minacce e ricatti americani, ha deciso di aprire alla Cina e vi si è recato già ben cinque volte. Nonostante un contenzioso con Pechino in merito al possesso di alcune isole (Il Tribunale di Arbitrato internazionale ha dato ragione a Manila ma la Cina ha detto che di quel verdetto non se ne fa nulla), vista la non certa affidabilità degli americani, Duterte ha aperto le porte agli investimenti cinesi, a prospezioni comuni per gas e petrolio nelle sue acque, ha consentito a loro pescherecci di collaborare con quelli di Manila e ha perfino concesso a Pechino di programmare la costruzione di una nuova città in quella che era la base aerea militare americana chiamata “Clark”.
Non che in altre parti del globo la situazione appaia migliore: tutti i cittadini del mondo hanno visto come Trump si è comportato con i curdi siriani dopo aver chiesto il loro sangue per combattere l’ISIS e perfino con la NATO e con l’Europa le sue continue dichiarazioni non hanno certo contribuito ad aumentare il tasso di simpatia verso gli Stati Uniti. Per ciò che riguarda l’Alleanza Atlantica, ha dichiarato che potrebbe anche decidere di non applicare l’articolo 5 (quello che prevede il soccorso automatico di tutti i membri qualora un associato fosse aggredito da terzi) se gli altri partner non aumenteranno le proprie spese militari almeno al 2% del loro PIL (l’Italia è da tempo tra l’1,2 e l’1,3%). Naturalmente il comando americano sull’Alleanza non si discute. Verso l’Unione Europea si è mostrato ancora più drastico definendoci pubblicamente un “nemico” e imponendo più alti dazi doganali sulle merci europee. C’è da stupirsi se aumenta, anche in Italia, il numero di coloro che han cominciato a domandarsi se valga ancora la pena di considerare la nostra alleanza “strategica” o non convenga piuttosto cominciare a pensare a un futuro diverso o almeno meno dipendente?
Molto probabilmente, vista la confusione che esiste tra i suoi possibili avversari, Trump sarà rieletto per altri quattro anni e non c’è motivo alcuno di pensare che in seguito voglia modificare il suo comportamento che definiremmo da cowboy un po’ borioso. La cosa peggiore è che, anche qualora altri dovessero prendere il suo posto, quel clima di affidabilità e fiducia che era per noi obbligatorio nutrire nei confronti degli USA difficilmente potrà tornare come era nel passato.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.