Le potenze regionali e la frammentazione dell’ordine internazionale

La pandemia di coronavirus aumenta il caos geopolitico del mondo. Il soft power è la nuova frontiera della guerra ibrida. La proliferazione di potenze regionali mette in crisi la pax americana.

di Marco Corno

Nonostante la pandemia di coronavirus stia sconvolgendo l’intero mondo e miliardi di persone si trovino a vivere in un regime di lockdown da diversi mesi, le sfide e le crisi che attanagliano l’ordine internazionale non cennano a placarsi, anzi sembrano conoscere una progressiva accelerazione. In particolare sembra emergere sempre di più l’elemento asimmetrico della competizione mondiale, conosciuto come soft power, che coinvolge non solo direttamente le grandi potenze come Cina e Usa, che si sfidano in questo ambito sia sulle responsabilità nella diffusione del coronavirus sia nelle politiche di aiuti ai paesi più colpiti dal Covid-19, ma anche le potenze regionali.
Di fatto l’asimmetria è sempre stato un elemento intrinseco delle guerre combattute dagli stati dal XVII secolo in poi ma il grande cambiamento del giorno d’oggi è l’aumento del peso geopolitico del soft power all’interno dei conflitti del XXI secolo definiti ibridi, benché l’elemento militare (hard power) sia ancora una conditio sine qua non nella definizione delle gerarchie di potere tra gli stati. In particolare, come sottolineato dal politologo americano Joseph Nye, è la capacità di utilizzo dello smart power, ovvero l’utilizzo congiunto dell’hard power e del soft power, che porta la sfida tra stati su più livelli e in più ambiti, permettendo a potenze minori di sfidare le grandi potenze del globo.
L’ordine unipolare uscito dal 1991 ha conosciuto una sua progressiva erosione nelle sue periferie più lontane lungo la fascia del Rimland a vantaggio di stati regionali che sono riusciti progressivamente a “ritagliarsi” un proprio spazio di influenza, aumentando la propria proiezione di potenza e presentandosi come deus ex machina dell’equilibrio regionale. Tale cambiamento non riguarda solo stati inseriti nel cosiddetto “asse del male” da parte di George Bush figlio (Iran, Corea del Nord, Siria..) ma anche molti stati membri della sfera di influenza Usa che si sono allontanati dall’alleato americano e hanno adottato un modus operandi sempre più indipendente e imprevedibile, molto spesso in contrasto con gli interessi di Washington.
Alcuni di questi stati, come la Turchia, sfruttano la propria posizione strategica di limes tra due super potenze onde intraprendere una politica estera più assertiva, garantendosi la non ostilità statunitense. La Turchia, dal punto di vista di Washington, è fondamentale in funzione anti-russa, non solo perché possiede uno degli eserciti più potenti della Nato ma anche perché si trova a cavallo tra il continente europeo e il Medio Oriente oltre che tra Mar Nero e Mar Mediterraneo. La consapevolezza della sua rilevanza geo-strategica permette ad Ankara di aver il tacito placet regio americano nella guerra siriana e libica, specie se i regimi al potere sono considerati nemici dell’Occidente.
Altri stati sfruttano le ossessioni e le paure delle grandi potenze, come la Corea del Nord. Pyongyang, con lo sviluppo del proprio programma nucleare, ha saputo presentarsi come garante della stabilità della penisola coreana e dello status quo del sud-est asiatico. Infatti la deterrenza nucleare nord-coreana spinge la Cina a sostenere il più possibile il regime al potere evitando che un eventuale suo crollo, oltre che provocare una perdita di controllo sulle armi nucleari, obblighi Pechino ad invadere militarmente il nord, come avvenuto in occasione della Guerra di Corea (1950-1953), per evitare l’unificazione della penisola coreana sotto Seoul e un conseguente avvicinamento delle truppe americane al confine cinese.
Al contempo l’arma nucleare dissuade gli Stati Uniti dal dichiarare guerra allo stato eremita, che provocherebbe uno scontro manu militari con la Cina dalle conseguenze imprevedibili, costringendo quindi Washington e Pechino ad accettare de facto la situazione.
In Medio Oriente alcune potenze come l’Iran sfruttano gli errori degli Usa e dei loro alleati nella regione per ampliare la propria sfera di influenza. La guerra in Afghanistan (2001) e la guerra in Iraq (2003) hanno incrementato il caos della regione, permettendo a Teheran di colmare in parte il vuoto geopolitico creatosi in Iraq e costruendosi una propria area di influenza, estesasi nel corso degli anni anche in Siria e in Libano. Il soft power iraniano non si limita a scontrarsi direttamente con le esigenze Usa ma fa leva sulle paure degli alleati regionali come Israele che, circondato da organizzazioni filo-iraniane come Hamas ed Hezbollah, teme un possibile attacco congiunto qualora alla prima potenza mondiale sfugga di mano la situazione. Inoltre il soft power di Teheran aggira il potere militare americano spingendolo a confrontarsi su nuovo campi di battaglia, come la cyber war, la propaganda e la proxy war. La baldanza iraniana con cui è stato acclamato il lancio del primo satellite militare nello spazio simboleggia un ulteriore salto di qualità nella sfida asimmetrica tra questi due stati. Benché l’amministrazione Trump lo consideri come un atout per guidare missili balistici intercontinentali, in verità per Teheran questo satellite ha molto probabilmente una duplice funzione: da una parte scongiurare eventuali cyber-attacchi ai suoi danni, come quello avvenuto nel 2008, e dall’altra potenziare la propria sfera di influenza.
In conclusione, una delle caratteristiche di questo XXI secolo, rispetto al XX e al XIX secolo, è la proliferazione di una moltitudine di piccole potenze che hanno saputo rafforzare la propria sovranità, sia internamente sia nei rispettivi contesti regionali, sfruttando le alleanze con potenze superiori, frammentando sempre di più un ordine internazionale che da unipolare si appresta a diventare multipolare.