Le ragioni di Trump

di Filippo Sardella

Il 20 gennaio 2017 è stato il giorno in cui ufficialmente è iniziato il mandato del 45esimo predisente degli Stati Uniti. Trascorsi due mesi dalla vittoria elettorale di Donald Trump, le voci ed i movimenti di protesta tendono a non spegnersi, anzi sembrano con il passare delle ore e dei giorni espandersi e diffondersi anche in metropoli e città ben lontane dalla politica statunitense. Doverosa è la riflessione che vede i cortei anti Trump proliferare in Europa e negli Usa, e non in America Latina, continente da sempre vittima dell’espansionismo statunitense.
Proteste e malcontento nei confronti del neo presidente statunitense potrebbero imputarsi alla perenne sfiducia che l’opinione pubblica internazionale si preoccupa di veicolare quasi quotidianamente. Questo risulta evidente da come la vandalica e distruttiva sortita dei Black Block a Washington, sia stata descritta solo come un’altra espressione del viscerante malcontento generato dalla figura del nuovo presidente, non provvedendo con la solita dovuta stigmatizzazione di quanto accaduto (la protesta dei Black Block, più estremo movimento anarchico No Global, costituisce una contraddizione in termini, dato che Trump ha sempre dichiarato di volere per gli Stati Uniti una delocalizzazione meno aggressiva ed una politica più isolazionista, limitando la portata globale degli investimenti Usa).
Inoltre le cancellerie di mezza Europa già rimpiangono la figura dell’ex presidente Obama, dimenticandosi che l’amministrazione del premio Nobel per la pace del 2009, nei suoi otto anni di presidenza, ha posizionato gli Stati Uniti in cima ain paesi che hanno venduto più armi nel mondo. Dal 2008 al 2015 gli Usa hanno infatti chiuso accordi per 208 miliardi di dollari, pari al 42% dell’intero ammontare del traffico di armi nei Paesi analizzati (soprattutto quelli in via di sviluppo), spesa corrispondente a più del doppio degli 86 miliardi della Russia. Nel solo 2015 gli Usa hanno concluso accordi per 40 miliardi di dollari, pari al 50,2% del mercato mondiale; oltre a questo l’ex presidente non è mai sembrato realmente intenzionato a risolvere il problema ISIS in Medio Oriente.
Si capisce bene che all’interno della politica americana, soprattutto per quanto riguarda la sfera inerente alla gestione della Difesa, degli armamenti e dei servizi segreti, le l’hobby siano troppo potenti ed importanti per essere gestite da un solo uomo con un mandato a scadenza, però bisogna anche ricordare che il Presidente degli Stati Uniti esercita un potere non indifferente all’interno dell’apparato militare.
Come se non bastasse, nei confronti del presidente Trump, a pochi giorni dal suo insediamento l’opinione pubblica internazionale inizia inspiegabilmente già a spazientirsi, mentre rimaneva in estasi quando nel 2009 venne conferito un dubbio premio Nobel per la Pace al presidente Obama. La dubbiosità dell’onorificenza svedese oltre a stare nella debole motivazione addotta (inerente alla riduzione degli arsenali nucleari e alla costruzione di un dialogo distensivo e costruttivo col Medio Oriente), stava anche nella celerità con cui la figura dell’allora presidente degli Stati Uniti veniva premiata. Infatti avvenne solamente un anno dopo il suo insediamento alla Casa Bianca; un lasso di tempo che appare troppo breve per conferire tale onorificenza. Nessuno mette in dubbio le buone intenzioni della commissione che ha designato Obama come vincitore del premio, però si rimane perplessi di fronte al fatto che non si è voluto attendere la fine di un mandato tanto impegnativo come il quadriennale incarico alla Casa Bianca.
Stupisce ancora di più la polemica che non accenna a placarsi a due mesi dall’epilogo della campagna elettorale tra Trump e la Clinton. Tuttora nei confronti del neo-presidente eletto Trump, l’intransigenza e gli attacchi, sferrati sia degli oppositori, sia dei “liberal” (ombrello dove si ripara gran parte del mondo intellettuale contemporaneo), si basano prettamente sulle affermazioni e sui proclami ostentati in campagna elettorale, peccando così di fondamenti politici validi. E’ evidente come non si è disposti, soltanto per un anacronistico spirito campanilistico, a concedergli quel periodo di assestamento che necessita ogni amministratore della “res pubblica”.
Di contro, con Hilary Clinton la linea di tolleranza dei mass media nei confronti della sua politica è sempre stata elevata e a volte anche miope. La navigata figura dell’ex candidata democratica dell’establishment di Washington, compromessa ideologicamente dal pantano medio – orientale, è sempre stata presentata dall’opinione pubblica occidentale come la figura ideale per la guida di uno degli stati più importanti ed imponenti del mondo, dimenticando però che a differenza dell’autofinanziato Donald Trump, la Clinton aveva goduto di ampi e dispendiosi finanziamenti per la propria campagna elettorale da terze parti, impegnando così la stessa figura di Hilary Clinton a consequenziali e pregiudizievoli rapporti con personaggi desiderosi di riscattare il loro supporto al momento opportuno. Tale ragionamento, all’apparenza cervellotico, si mostra nei fatti più inquietante che mai. Sulla candidata democratica, invero pesavano svariati milioni di dollari donati (o meglio dire investiti) da personaggi apparentemente esterni all’establishment statunitense ma con intricati interessi nella sfera politica statunitense.
Si è voluto dimenticare in fretta o forse non si è mai voluto parlare apertamente del fatto che, tra i maggiori finanziatori di Hilary vi fossero una nutrita schiera di nazioni di stampo liberticida, come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Oman. A questi, senza troppe sorprese si aggiunge in extremis l’Ucraina che in ottica anti russa, tra il 1999 e il 2014, ha donato addirittura 10 milioni di dollari, divenendo negli ultimi anni il primo Stato estero finanziatore della Fondazione Clinton.
Tra i privati cittadini si riscontra il supporto di molte personalità influenti, fra queste quella del milionario di origine ebraiche Haim Saban, che ha donato l’imponente cifra di 11 milioni di dollari. Produttore televisivo, investitore e proprietario di diverse emittenti, secondo quanto riportato lo scorso autunno nel corso di un’intervista per la testata giornalistica “New Yorker”, ha dichiarato, riferendosi alla cospicua somma versata alla Fondazione Clinton, che ogni investimento è buono affinché Israele venga protetto. Sembra logico che il modo migliore per raggiungere tale obiettivo è quello di avere una persona di fiducia alla Casa Bianca.
Donald Sussman, manager di un fondo speculativo, il quale sperava con i suoi 21 milioni di dollari di poter indirizzare la Clinton verso il ribaltamento della sentenza “Citizens United”che stabilisce un tetto massimo agli investimenti che i privati cittadini possono versare per campagne elettorali. Oltre a questi (e ce ne sarebbero molti altri, ognuno con una propria richiesta specifica) spicca il nome di Donald R. Mullen Jr, della Goldman, Sachs & Co, con i suoi 150mila dollari.
Mentre il mondo rimpiange la sconfitta del “gigante Golia” dai non ben chiari progetti politici, il neo-presidente Trump conferma che garantirà i diritti di tutti i cittadini, anche di quelli di cui la vita è minacciata prematuramente, tanto che è pronto alla nomina in Corte suprema di alcuni giudici pro-vita ed anti aborto. Inoltre assicura che non verrà violato o cancellato nessuno di quei diritti civili acquisiti dalle coppie gay, infatti chiude la polemica inerente ai matrimoni fra persone dello stesso sesso rispondendo così ad una giornalista della CBS “Una questione già decisa, a me va bene, è irrilevante se le sostengo perché “è una questione già decisa, è legge, c’è una decisione della Corte suprema, è fatta”.
Con il beneficio del dubbio inizia l’era Trump alla Casa Bianca e non resta che aspettare prima di commettere ulteriori passi falsi ideologici.