Le tensioni nel Golfo

di Dario Rivolta * –

La tensione nel Golfo Persico non accenna a diminuire e, al contrario, l’Iran ha sequestrato nella scorsa settimana una petroliera accusata di trasportare 700mila litri di petrolio iraniano contrabbandato verso “Stati arabi del Golfo”. Sembrerebbe strano che si possa parlare di contrabbando di petrolio verso Stati che sono essi stessi forti produttori, ma è meno sorprendente quando si scopre trattarsi di carburante destinato ad uso interno e il cui prezzo è quindi sovvenzionato da aiuti statali. In questo caso il suo prezzo diventa estremamente vantaggioso per chi acquista. Stando a fonti ufficiali iraniane, in un solo mese sono stati ben otto i milioni di litri di carburante sovvenzionato che sono stati oggetto di contrabbando.
Il sequestro di questa nave, la cui nazionalità non è stata dichiarata, è il terzo negli ultimi trenta giorni. Il primo ha riguardato una nave con bandiera panamense, il secondo una nave britannica. Nel caso di quest’ultima, più che di contrabbando è facile immaginare che la ragione del suo sequestro sia stata una risposta alla precedente requisizione di una nave iraniana (con petrolio destinato alla Siria) avvenuta a Gibilterra su ordine del governo di Londra. Parallelamente alle tensioni marittime tra gli USA e l’Iran è in atto anche un confronto nei cieli: gli iraniani hanno abbattuto un drone americano di ultima generazione accusato di essere entrato nella zona aerea iraniana; gli USA hanno dichiarato di avere abbattuto due droni spia iraniani che si erano troppo avvicinato a navi militari americane nel Golfo. Le Guardie Rivoluzionarie, pur ammettendo la presenza di tali droni, hanno smentito il loro abbattimento ed hanno sfidato gli americani a darne prova esibendone i resti.
Ciò che è certo è che britannici e americani hanno deciso di stanziare nuove navi da guerra nel Golfo con l’obiettivo di “assicurare il transito delle navi mercantili nello Stretto di Hormuz” (Ministero della Difesa britannico). Altri Paesi invitati ad aderire alle manovre britannico-americane tra cui Francia, Germania, Australia e Giappone hanno declinato l’invito. Il Ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato che “Noi siamo in stretto coordinamento con i nostri partner francesi. Consideriamo che la strategia della massima pressione sia sbagliata. Non vogliamo una ulteriore escalation militare e continueremo a focalizzarci sulla diplomazia”. Anche gli inglesi, pur partecipando con gli americani alla presenza militare, hanno dichiarato:” Il nostro approccio verso l’Iran non è cambiato. Noi restiamo intenzionati a lavorare con l’Iran e con i nostri partner internazionali per normalizzare la situazione e confermare l’accordo raggiunto sul nucleare”.
Il risultato è che Trump è totalmente isolato (salvo l’appoggio di Arabia Saudita e Israele) nella sua intenzione di continuare ad aumentare la pressione contro Teheran e c’è da chiedersi, a questo punto, a cosa miri realmente.
A prima vista le ipotesi sono tre: un nuovo negoziato, un cambiamento di regime o la guerra.
In realtà una nuova guerra in Medio Oriente sarebbe disastrosa per gli USA e lo stesso Trump, pur senza escluderla, ripete continuamente che è l’ultima delle soluzioni cui mirerebbe. Un conflitto armato, potrebbe svolgersi con due modalità: un singolo bombardamento “chirurgico” (o una serie di attacchi aerei come quelli effettuati in Siria) oppure una guerra vera e propria con invasione di truppe di terra. Che gli Stati Uniti siano in assoluto la più grande potenza militare del mondo è indiscutibile, ma è pur vero che, dal Vietnam in poi e con l’eccezione della guerra contro la Serbia, non hanno vinto alcun conflitto e, dopo essere rimasti impantanati per anni, se ne sono dovuti andare lasciando una situazione peggiore (per loro) di quando tutto era cominciato. Afghanistan e Iraq sono i maggiori esempi ma anche Somalia e Libano hanno rappresentato l’emblema di sconfitte che l’opinione pubblica americana preferisce non ricordare.
Nel caso di un attacco aereo, al Pentagono tutti sanno che l’Iran non è né la Siria né la Jugoslavia. Le capacità di reazione antiaerea iraniana è ben maggiore di quanto potevano vantare i due Paesi e non c’è alcuna certezza che gli obiettivi colpiti riescano a impedire le capacità di reazione. A essere oggetto di risposta di Teheran non sarebbe certo il territorio degli Stati Uniti, fuori portata anche dei più capaci dei missili iraniani, ma lo sarebbero Israele e Arabia Saudita, stretti alleati e primi fautori di un’azione armata. Ciò porterebbe immediatamente a un allargarsi del conflitto e alla destabilizzazione di tutta l’area mediorientale con conseguenze tragiche sulla possibilità di utilizzo dello stretto di Hormuz per i transiti di petrolio e gas. Anche gli oleodotti che attraversano la penisola per arrivare al Mar Rosso ed evitare così il passaggio dal Golfo non sarebbero al sicuro e lo ha dimostrato l’invio di missili da parte degli Huthi dello Yemen che già l’hanno danneggiato a scopo dimostrativo.
Per mettere fuori uso tutte, o quasi, le capacità reattive iraniane occorrerebbe che all’azione aerea si accompagni una di terra. In questo caso però è bene non dimenticare che l’Iran non è l’Iraq e che gran parte del Paese oltre ad essere molto più vasto e abitato è pure montagnoso. Occorrerebbero dunque molte centinaia di migliaia di uomini che dovranno occupare il Paese per molti lunghi anni. Durante i quali è inimmaginabile che le Guardie Rivoluzionarie (e cioè le forze meglio armate del Paese) rinuncino a organizzare azioni di guerriglia continuata e velenosa. Anche se si trovasse un gruppo di persone disposte a diventare un governo fantoccio, è molto probabile che il dopo-guerra si trasformi in una lunga guerra civile ove la maggioranza della popolazione, per quanto stanca degli Ayatollah, non parteggerebbe certo per gli americani. Si tratta inoltre di vedere come si comporteranno Cina e Russia che ben difficilmente sarebbero pronte a plaudire a una nuova instabilità con possibili coloriture di stampo islamista.
Se escludiamo la convenienza di una guerra, dobbiamo però considerare le altre due ipotesi e cioè il “cambio di regime” o il costringere Teheran a una nuova negoziazione. Se quest’ultima fosse la scelta cui Trump mira, sembrano del tutto fuori luogo i contenuti delle ultime sanzioni applicate dopo l’abbattimento del drone-spia. Si è trattato infatti di “punire”, tra gli altri, l’Ayatollah Khamenei e il ministro degli Esteri Zarif. Passi per il primo ma il secondo, nel caso di eventuali negoziati, resta l’unico possibile interlocutore. Se non fosse lui, chi lo sostituirebbe sarebbe certamente un uomo designato dalle Guardie Rivoluzionarie e quindi qualcuno molto meno disponibile a concessioni. Se l’obiettivo di nuovi negoziati fosse la chiusura di ogni investimento iraniano nel settore dei missili balistici, nessun governo a Teheran potrebbe mai accettarlo, se non dopo una sconfitta militare. Questi missili costituiscono infatti l’unica vera arma offensiva/difensiva aerea che l’Iran ha a disposizione, essendo stata la sua aviazione messa in ginocchio dalle sanzioni precedenti.
Resta allora l’opzione “cambio di regime” e, vista la situazione, tale sembrerebbe l’ipotesi più razionale. Le sanzioni americane, quelle dirette e quelle “secondarie”, stanno infatti mettendo l’economia del Paese in ginocchio e ciò sta causando una diffusione del malcontento popolare. L’inflazione nell’ultimo anno ha superato il 40% e il mercato nero del traffico di valuta è arrivato fino a 150mia rial per dollaro. Tuttavia, affinché tale reale sofferenza si trasformi in una pressione talmente forte da causare una caduta del regime, occorrerebbe che ci fosse qualcuno in grado di organizzarla e guidarla. Situazione ad oggi assolutamente improbabile. L’unico evento che potrebbe verificarsi è la caduta del governo di Hassan Rohani, cosa che porterebbe ancora maggiore potere nelle mani degli ultra-conservatori e delle Guardie rivoluzionarie. Anche se si riuscisse a dar vita a un governo “amico”, è molto probabile che si ritorni allo scenario precedente e cioè che le Guardie Rivoluzionarie diano inizio a una guerra civile dall’incerto esito.
Per finire, va considerata la possibilità che nessuno dei precedenti sia il vero obiettivo e che esista una quarta ipotesi. In questo caso l’”aggressività” di Trump andrebbe letta come una pura “recita” con due scopi: esibire agli elettori americani un presidente “macho” e deciso (a cosa?), e soprattutto rassicurare Israele e gli alleati del Golfo (vedi Arabia Saudita) sulla volontà americana di non abbandonarli davanti agli intenti egemonici iraniani verso l’area. Considerata la complessità psicologica del Tycoon, quest’ultima eventualità è forse la più realistica.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.