L’Erasmus. Un progetto europeo per “sfornare” studenti (e bambini) più europei

di C. Alessandro Mauceri –

Dalla sua creazione nel 1987 ad oggi il programma Erasmus (niente a che vedere con il teologo olandese, ma l’acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students) ha permesso a migliaia e migliaia di studenti di effettuare presso un’università straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria università. Secondo le statistiche della Commissione Europea, solo l’anno scorso, sarebbero stati oltre 250mila i giovani che hanno aderito al programma.
Il tutto con un costo non indifferente per i contribuenti dell’Unione Europea che, solo lo scorso anno, ha stanziato circa 450 milioni di Euro. Una somma rilevante che presupporrebbe un ritorno altrettanto rilavante.
Quale ritorno? L’esperienza all’estero, almeno sulla carta, dovrebbe consentire agli studenti di acquisire conoscenze che favoriscono l’occupazione (e infatti, nei cinque anni dopo la laurea, il tasso di disoccupazione degli studenti Erasmus è inferiore del 23% rispetto agli altri coetanei di pari livello educativo). Ma dovrebbe servire anche a creare dei cittadini “europei”. Su questo dato pare che il successo del programma non sia così evidente. Infatti, se da un lato un numero sempre maggiore di studenti chiede di partecipare al programma (le università più richieste non sono quelle più blasonate, ma quelle di Paesi più caldi, come la Spagna e l’Italia, nonostante il ranking dei loro atenei sia basso), dall’altro, pare siano sempre di più quelli non considerano l’essere “cittadini europei” come un traguardo. Molti studenti Erasmus migrano verso climi più miti ma a volte solo per continuare a fare ciò che già facevano nel proprio Paese, cioè studiare poco e divertirsi.
Che molto poco dello spirito “europeo” sia rimasto nel loro patrimonio culturale lo provano diversi sondaggi: secondo La Stampa ben il 58 per cento degli italiani vede l’Europa come un problema e, secondo un sondaggio Gallup Europe, per la maggior parte degli europei, sarebbe l’intera UE ad andare nella direzione sbagliata (il 62 per cento dei francesi, il 56 per cento dei britannici e così via a scalare).
Ma, allora, perché così tanti giovani chiedono di partecipare a progetti Erasmus? La risposta forse potrebbe venire da un altro dato. Nei giorni scorsi Androulla Vassiliou, commissaria all’Istruzione e la Cultura ha presentato alla stampa i risultati di uno studio dal quale emergerebbe che per tanti milioni di giovani, Erasmus non è stato solo un’opportunità dal punto di vista formativo e poi lavorativo, ma dei rapporti interpersonali: circa il 33 per cento degli ex studenti Erasmus ha un partner fisso di un’altra nazionalità e il 27 per cento ha incontrato il proprio partner fisso durante il suo periodo formativo all’estero.
Dati che fanno riflettere. Soprattutto per le conseguenze che questo comportamento ha avuto. Secondo i risultati dello studio, dal 1987 ad oggi, sarebbero circa un milione i bambini “Erasmus”, ovvero i figli nati da rapporti tra coppie conosciutesi durante progetti formativi finanziati dall’Unione Europea.
Qualche anno fa, per promuovere il programma Erasmus, venne lanciato lo slogan: “Non rinunciate a partire e a cambiare, non tanto il mondo, quanto voi stessi”. Fu allora che si parlò di “Erasmus generation”.
Dopo i risultati resi noti dalla commissaria all’Istruzione e la Cultura, questo termine non potrebbe non essere più riferito al numero sempre maggiore di studenti universitari in giro per l’Europa, ma alle centinaia di migliaia di bambini nati grazie al programma Erasmus. I nuovi cittadini “europei” ……