di Giuseppe Gagliano –
Nella seconda metà del Novecento la corsa allo spazio fu il simbolo più spettacolare del confronto tra potenze. L’Unione Sovietica e gli Stati Uniti si sfidarono a colpi di satelliti, navicelle e uomini lanciati oltre l’atmosfera. Ma quel mondo è finito. Oggi, la frontiera spaziale è diventata un campo da gioco dominato da logiche di mercato, dove gli attori principali non sono più le agenzie governative, ma i colossi privati.
Il nome più celebre è quello di Elon Musk e della sua SpaceX, che ha rivoluzionato l’industria dei lanciatori con la tecnologia dei razzi riutilizzabili. Una scelta pragmatica: ridurre i costi, aumentare la frequenza dei lanci, espandere il dominio orbitale. Lo spettacolo dei Falcon 9 che atterrano verticalmente su piattaforme oceaniche è diventato icona della nuova era spaziale, tanto suggestivo quanto strategico. Ogni lancio non è solo una sfida ingegneristica, ma una dichiarazione di supremazia industriale.
La NASA, che una volta si muoveva con programmi miliardari e un’autonomia totale, oggi appalta parte delle sue missioni all’industria privata. È una transizione che riflette la ritirata dello Stato da ambiti un tempo considerati esclusivamente sovrani. Ma questa privatizzazione dell’orbita terrestre bassa non è senza conseguenze: la costellazione Starlink, con oltre metà dei satelliti attivi in orbita, è ormai un’infrastruttura strategica controllata da un solo attore. Nessuna democrazia può permettersi di ignorare un simile accentramento.
L’Europa arranca. L’Agenzia Spaziale Europea, costretta a tenere insieme interessi divergenti, lavora secondo il principio del “ritorno geografico”, che impone di redistribuire i contratti industriali in base al contributo finanziario dei singoli Stati. Una scelta politica comprensibile, ma che soffoca la competitività. La progettazione di un satellite può richiedere anche dieci anni, mentre aziende come SpaceX o le nuove startup tedesche riescono a sviluppare, testare e lanciare prototipi in tempi dimezzati. La burocrazia europea è ancora troppo lenta per tenere il passo con la nuova frontiera.
Nel frattempo, la Cina ha costruito la propria stazione orbitale, prepara missioni su Marte, e offre una combinazione inedita di pragmatismo e controllo statale. Il suo approccio alla cooperazione internazionale è selettivo ma determinato, e i progressi sono evidenti. L’India, con budget ridotti ma obiettivi ambiziosi, si è affermata come attore autonomo: i lanciatori PSLV sono affidabili e competitivi. Anche il Giappone, pur con un profilo più discreto, ha rafforzato la sua capacità di accesso indipendente allo spazio.
E poi c’è la Russia. Dopo decenni di gloria con il programma Soyuz, oggi Roscosmos attraversa una crisi profonda, aggravata dall’isolamento geopolitico seguito alla guerra in Ucraina. Tagli ai finanziamenti, perdita di cooperazione con l’Occidente, declino tecnologico: la grande potenza spaziale sovietica è ormai ridotta a comprimario.
Ma in tutto questo scenario di razzi e orbite affollate, una questione resta inevasa: dove sta andando l’umanità?
Il controllo dello spazio comporta rischi immensi. Chi regolerà il traffico satellitare? Chi stabilirà i limiti della militarizzazione? E, soprattutto, chi garantirà che la corsa ai profitti non si trasformi in una nuova forma di colonialismo orbitale?
La fantascienza cinese lo ha capito prima della politica. Autori come Chen Qiufan usano la narrativa speculativa per parlare del presente: censura, tecnocrazia, manipolazione sociale. Lo fanno immaginando robot buddhisti e giustizieri digitali, ma in fondo parlano della Cina di oggi. E della nostra indifferenza.
Perché se il cielo è di nuovo il confine da conquistare, sarebbe il caso di domandarsi chi ne porterà la bandiera. E a quale prezzo.