Marocco. “Advocacy per il Sahara Marocchino alla luce degli attuali cambiamenti internazionali”. Intervento di Enrico Oliari

Red –

L’Associazione Sahara, in collaborazione con la Camera di Commercio, Industria e Servizi di Agadir, ha organizzato martedì 14 marzo 2023 una conferenza internazionale sul Sahara Marocchino intitolata “Advocacy per il Sahara Marocchino alla luce degli attuali cambiamenti internazionali”.
Questo evento scientifico ha visto la partecipazione di esperti, docenti universitari e ricercatori accademici nel campo delle relazioni internazionali, del diritto internazionale, della politica e dei media al fine di arricchire la discussione, il dialogo e lo scambio di informazioni utili sul tema della l’integrità territoriale del Regno. In questo contesto si inserisce l’intervento di Enrico Oliari, giornalista e direttore del quotidiano Notizie Geopolitiche, esperto di questioni geopolitiche e aree critiche, il quale ha trattato il tema Sahara Marocchino in un quadro autonomistico.

Uno dei principi che ho imparato della geopolitica è che i conflitti non si possono risolvere. Non esiste conflitto che si possa risolvere: ad esempio io provengo da una zona di conflitto, l’Alto Adige, un territorio a maggioranza di madre lingua tedesca che è stato per secoli parte prima della sfera germanica e poi dell’Impero d’Austria-Ungheria, annesso dall’Italia nel 1918.
Se il conflitto non può essere risolto, può invece essere gestito, da qui la capacità dei leader politici e sociali di saper inquadrare la realtà e di conseguenza adottare le misure necessarie volte alla gestione del conflitto.
Vorrei fare due esempi per farmi comprendere meglio.
Il conflitto ucraino parte, tra le varie cose, dalla crisi del Donbass, abitato da una netta maggioranza russofona e per il quale erano stati stabiliti in un quadro Osce, l’organismo per la cooperazione e la sicurezza europea, gli accordi del 2015 di Minsk 2.
Il mancato rispetto anche da parte ucraina degli accordi di Minsk e il sostegno ai gruppi armati da entrambe le parti hanno rappresentato un conflitto gestito malissimo, che è sfociato nella guerra che vediamo oggi, tanto che il presidente russo Vladimir Putin lo ha messo tra le motivazioni di quella che lui ha chiamato “operazione speciale”.
Al contrario il conflitto che interessa la mia terra è stato gestito con intelligenza attraverso la creazione di un modello di autonomia forte e nel rispetto e nella valorizzazione delle minoranze, dove lo Stato centrale ha delegato una serie di poteri in diversi settori favorendo la convivenza fra le tre diverse etnie, quella di lingua italiana, quella di lingua tedesca e quella di lingua ladina.
Ad esempio la magistratura e le entrate fiscali sono giustamente rimaste tra virgolette “statali”, mentre la sanità, l’agricoltura, la scuola, le strade e quant’altro sono “provinciali”, per cui lo Stato centrale non provvede direttamente ad erogare quei servizi bensì dà un pacchetto di soldi affinché la gestione pubblica sia locale. Ovviamente sto semplificando.
L’autonomia ha così prodotto prosperità e pace sociale, e soprattutto garantito la gestione del conflitto.
Qui vengo alla realtà in cui oggi mi trovo, vista ovviamente con i miei limiti di straniero, per quanto navigato nella geopolitica.
Vorrei tuttavia vedere la questione non dall’alto, cioè dalle risoluzioni Onu o dal diritto internazionale, o ancora dall’appoggio degli Stati Uniti alla “marocchinità” del Sahara, cosa che sta avvenendo anche da paesi europei come Belgio, Spagna e Austria, bensì “dal basso”, cioè dalla gente comune, dalle famiglie e dalle loro prospettive.
Io mi chiedo se abbia senso oggi, nel 2023, in un quadro di precarietà della sicurezza globale, di rischio di catastrofe economica sempre alle porte e persino di pandemia, che vi siano nuclei separatisti determinati a istaurare una propria nazione indipendente ma insignificante e debole persino nel contesto regionale.
Io mi chiedo quale interesse spinga presunti “Fronti”, roba d’altri tempi, a persistere in una lotta talvolta violenta, che dopo 40 anni non ha portato a nessun risultato e che quindi si è rivelata una strategia inefficace se non inutile.
Io mi chiedo quale interesse spinga una leadership, che dovrebbe puntare al bene della propria gente, a tenere inchiodate migliaia di persone e famiglie nel deserto algerino togliendo loro ogni possibilità di sviluppo e di prospettiva.
Mi chiedo anche perché io, che sono europeo, debba alzarmi al mattino e andare a lavorare per versare con le mie tasse l’elemosina a chi vive nei campi di Tindouf, quando l’Unione Europea dovrebbe puntare a finanziare, in accordo con il Regno del Marocco, progetti di sviluppo infrastrutturale ed economico nel Sahara al fine di favorire l’assorbimento fisiologico e la reale integrazione dei Saharawi.
Sorvolo su dove finiscano realmente i soldi di noi europei quando arrivano a Tindouf: sono state già sprecate interrogazioni all’Europarlamento senza che sia stata fatta completa chiarezza. D’altro canto non si sa neppure quanti siano questi Saharawi, dal momento che non si riesce proprio a mettere insieme un banale censimento: stanziare 10 milioni di euro per 100mila persone è una cosa, stanziarli per 10mila persone è un’altra.
Noi europei abbiamo insomma il vizio di spedire soldi ovunque nel mondo in nome di chissà cosa, senza curarci dove e in quali tasche vadano a finire, con controlli spesso di facciata.
Eppure da europeo vorrei chiedere al capo del Polisario, alla luce di 40 anni di stallo, se è meglio che un Saharawi lavori e cresca la sua famiglia nel Sahara Marocchino, oppure che vegeti per altri 40 anni nel deserto algerino in condizioni costrette e misere?
Non è il caso che invece di prodigarsi da decenni in un’assistenza umanitaria cronica, si cambi prospettiva e si contribuisca ad investire nello sviluppo di una terra appetibile per l’industria dei fosfati e della pesca?
In quest’ottica davvero non riesco a comprendere perché la Corte generale dell’Unione Europea continui ad annullare gli accordi tra l’Ue e il Marocco circa le esportazioni dal Sahara: vogliamo davvero che i Saharawi di Tindouf vivano per altri 40 anni di elemosina?
Torno quindi al mio ragionamento iniziale: l’autonomia.
Il piano di uno Statuto di autonomia del Sahara sotto la bandiera del Marocco va nella giusta direzione, cioè nella gestione intelligente del conflitto.
Si tratta di un piano moderno, che si spinge molto avanti come modello autonomistico, tanto che prevede l’istituzione di un Parlamento regionale, di un governo regionale e persino di un’autorità giudiziaria indipendente, ovviamente nel quadro della legislazione sovrana del Marocco.
Prevede autonomia anche nell’imposizione dei tributi e per la sicurezza interna, ed ovviamente nel campo dell’istruzione, del commercio, dei trasporti e quant’altro, e posso dire che raramente mi è capitato di incontrare realtà autonomistiche forti come quella disegnata dal piano del Marocco, dalla Baviera al Kurdistan Iracheno.
Un’autonomia che dà ai Saharawi l’opportunità di lavorare alla valorizzazione della loro identità culturale ed etnica in un contesto di pace e sicurezza, non di guerra.
Allora perché rifiutare un piano così vantaggioso, che trasformerebbe un conflitto aperto in un conflitto gestito?
Con lo scoppio del recente scandalo tangenti che ha investito alcuni eurodeputati (è inutile che ci giriamo intorno), il Polisario ne ha approfittato per puntare il dito contro il rapporto dell’Unione Europea che dà una valutazione positiva sulla gestione marocchina delle province meridionali, ed ha denunciato che vi sarebbe (cito testualmente) “l’accelerazione del saccheggio delle ricchezze saharawi”.
Apro una parentesi: nell’attesa che la magistratura faccia chiarezza, mi riesce difficile pensare che un paese in crescita verticale come il Marocco, che ha già come primo partner commerciale l’Unione Europea, si metta a spendere soldi per convincere una manciata di eurodeputati su 705 a sostenere il piano sul Sahara e quindi commerciare con l’Unione Europea. Chiudo la parentesi.
A prescindere dal fatto che i Saharawi non sono un monoblocco, bensì un insieme composito di tribù non tutte rappresentate dal Polisario e non tutte risiedenti nei campi algerini, non è che siano proprio le ricchezze naturali alla base delle rivendicazioni indipendentiste?
Olivier Pierre Louveaux, oggi se non sbaglio all’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), scriveva della sua esperienza come capo progetto della Caritas che il Polisario sarebbe controllato da poche persone che antepongono i loro interessi personali alla risoluzione del conflitto.
Mi auguro che non sia così, perché in tal caso avrebbe ragione il mio amico Belkassem Yassine a definire il conflitto come “artificiale”.
Invece la stabilizzazione del conflitto, o meglio, la gestione del conflitto attraverso il piano autonomistico verrebbe a convenire a tutte le parti, Algeria compresa, che al di là dei buoni propositi e dei molti finanziamenti, da quasi mezzo secolo si ritrova amici quantomeno scomodi in casa.
Per la stabilizzazione del conflitto serve una presa di coscienza a livello internazionale della soluzione autonomistica, e già il Marocco si è mosso bene in tal senso, basti vedere l’apertura di diversi consolati di paesi africani nel Sahara.
Tuttavia è necessaria la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di conseguenza della classe politica a una visione più pragmatica e libera dagli ideologismi della gestione del conflitto, in questo caso attraverso la realizzazione dell’autonomia regionale sotto la bandiera del Marocco.
Con le grandi crisi, dall’Ucraina a Taiwan, c’è la possibilità che conflitti come quello del Sahara Marocchino non colpiscano l’attenzione dell’opinione pubblica se non in caso di riacutizzazione delle violenze, e questo è a mio giudizio sbagliato.
Purtroppo non ci troviamo in un momento florido per la libertà di stampa, con grandi gruppi che possiedono i macro media e che quindi producono un’informazione spesso monolitica, quando non di parte.
Se per esempio il produttore di armi è anche vicino alla proprietà di grandi media, è difficile che questi parlino di pace e di risoluzione dei conflitti, bensì saranno spinti a dipingere pericoli e nemici ovunque.
Quante volte, per esempio, capita di leggere sulla stampa di casa mia “attentato islamista”, “terrorismo islamista”… quando basterebbe sostituire il termine con “jihadista” per contrastare la diffidenza e il razzismo negli strati meno preparati della popolazione. Sarebbe come se in Italia durante gli Anni di piombo si fosse parlato di “attentato comunista” e non di “attentato brigatista”.
Serve quindi spiegare al cittadino comune e di conseguenza al politico, senza forzature e senza propaganda, l’importanza della gestione intelligente del conflitto in questa parte di mondo, proprio perché non si arrivi a parlare di Sahara solo quando si spara.
Quanti “ucrainisti” dell’ultima ora hanno scoperto l’esistenza del Donbass solo il 24 febbraio di un anno fa….
Per fortuna l’informazione non è fatta solo di macrogruppi e può essere comunque capillare se prodotta da più vettori di medie e piccole dimensioni, certamente liberi e non vincolati ai grandi interessi.
A me come giornalista indipendente e libero da ogni ideologia e da ogni ideologismo non interessa raccontare quanto è buono quello o quanto è cattivo quell’altro. A me interessa comprendere la situazione e raccontare, in questo mondo di conflitti più o meno gestiti, l’importanza di ogni azione che spinga al dialogo e alla pace.
Ed io sono convito che il piano autonomistico marocchino per il Sahara vada nella direzione della pace.