Marshall: un piano per tutte le stagioni

di Giovanni Ciprotti –

boldrini lauraIl conduttore di Di Martedì Giovanni Floris ha intervistato la presidente della Camera, Laura Boldrini. Tra i temi affrontati non poteva mancare quello dei rifugiati, sia per la drammatica attualità sia per la riconosciuta competenza della presidente sull’argomento.
La terza carica dello Stato ha risposto mettendo insieme tre elementi: la via dei negoziati per porre fine ai conflitti nelle aree in guerra; la partecipazione dell’Europa, con una linea unitaria (una “sola voce”), ai diversi processi di pace; la definizione di un nuovo “piano Marshall” per l’auspicato dopoguerra, come avvenne settanta anni fa in Europa.
Pur con tutte le riserve dei diversi attori coinvolti e le colpevoli distrazioni della comunità internazionale, i negoziati sono stati avviati da tempo per tentare di risolvere sia la crisi libica sia la crisi siriana, come del resto sono stati a più riprese promossi negli ultimi decenni per cercare di dare una soluzione al più antico conflitto tra israeliani e palestinesi. Purtroppo, alla fin troppo ovvia difficoltà di individuare un compromesso accettabile per tutte le parti in conflitto, le crisi in questione contengono un elemento di discordia anche tra gli attori mediatori: la mancanza di una legittimazione condivisa di tutte le parti in causa. Con l’eccezione forse del governo siriano, la cui legittimità non è messa in discussione neanche dagli Stati suoi detrattori, la legittimazione di tutte le altre fazioni coinvolte, in Libia come in Siria, non è unanimemente riconosciuta dalla comunità internazionale. Basti pensare ai curdi che combattono l’Isis nelle aree settentrionali della Siria: supportate, anche militarmente sul terreno, dagli Stati Uniti; considerate unità terroristiche dalla Turchia, membro della Nato e probabile futuro membro della Unione Europea.
Premesso ciò, l’auspicio è che siano i negoziati e non le azioni militari a offrire una via d’uscita alle guerre che da troppo tempo sconvolgono le aree mediorientale e nordafricana e bene ha fatto la Presidente Boldrini a ricordarlo.
Veniamo ora alla questione dell’Europa.
L’Unione Europea sta attraversando un periodo di profonda crisi. Dopo la fine della Guerra fredda, la strategia di Bruxelles è stata incentrata per lungo tempo sul cosiddetto processo di allargamento, che ha portato il numero dei Paesi membri dai 12 del 1989 ai 27 del 2007. Pochi sforzi però sono stati fatti per completare l’architettura costituzionale della Unione prima che l’arrivo di nuovi Stati membri rendesse ardua qualsiasi riforma.
La crisi economica scoppiata nel 2008 e il drammatico fenomeno dei rifugiati che, in fuga da guerre e fame, premono sempre più numerosi ai confini europei, stanno mettendo a dura prova la tenuta della Unione. Le continue tensioni sulle ricette economiche da adottare per rilanciare l’economia e l’indebolimento del meccanismo di Schengen, fino a pochi anni fa un vanto del nostro continente, testimoniano la scarsa coesione a livello comunitario.
La politica estera non può non risentire di tale situazione e l’Unione Europea stenta ad avere un peso di rilievo nelle questioni internazionali. Non è un caso se la presenza di Federica Mogherini, il “ministro degli esteri europeo”, sia piuttosto marginale nei negoziati per la Libia e la Siria, come lo è stato ai tempi della crisi ucraina.
Ma il passaggio meno convincente della riflessione della presidente della Camera riguarda il neo-piano Marshall, che nella semplificazione storica di Laura Boldrini gli Stati Uniti avrebbero varato per evitare che la paventata destabilizzazione degli stremati Stati europei si tramutasse in una destabilizzazione degli Usa.
Evocare un evento storico di successo come fu il piano Marshall fa certamente presa sull’immaginario collettivo, in particolar modo europeo, ma rischia di distorcere la percezione della realtà, perché presenta come praticabile una opzione che non è detto che lo sia.
E’ sempre difficile paragonare fatti lontani nel tempo e nello spazio ed è sempre rischioso lanciarsi in azzardate similitudini, ma il contesto economico, politico e storico all’interno del quale fu concepito il piano Marshall era molto diverso da quello odierno.
La fine della seconda guerra mondiale aveva lasciato gli Stati Uniti e i Paesi europei in condizioni molto diverse: i primi non avevano subìto distruzioni sul proprio territorio, possedevano un sistema produttivo poderoso e il loro tasso di disoccupazione era quasi azzerato; i secondi erano stati devastati dai combattimenti e dai bombardamenti, le loro economie erano completamente da ricostituire e il tessuto sociale era stato dilaniato dai lunghi anni della guerra, in alcuni casi anche civile.
Di contro, Stati Uniti e paesi europei erano accomunati da secoli di storia e cultura parallele, esperienze condivise nel campo scientifico, adesione ai principi illuministici e adozione dei modelli di democrazia liberale. Questa base storico-culturale comune costituiva un vantaggio già allora evidente per un progetto di rinascita europeo supportato da Washington.
Quanto alle motivazioni che spinsero il segretario di Stato Usa, George Marshall, a proporre nel 1947 un piano di aiuti alle nazioni europee, esse furono molteplici ed è difficile elencarle tutte e in ordine di importanza.
Gli Stati Uniti si erano lasciati alle spalle la lunga fase di crisi economica, iniziata con il crollo di Wall Street nel 1929, soltanto grazie allo sforzo prodotto durante il secondo conflitto mondiale, quando l’intero sistema produttivo americano era stato piegato alle esigenze belliche per diventare, secondo la figura retorica usata all’epoca dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt, l’”arsenale della democrazia”.
Al termine della guerra, diversi studi del Dipartimento di Stato e del Congresso americani erano concordi nell’ipotizzare un considerevole aumento della disoccupazione, come effetto della smobilitazione post-bellica, che avrebbe coinvolto un numero di persone variabile tra 4 e 6 milioni e corrispondente ad un aumento del tasso di disoccupazione di 8-10 punti percentuali. Perché l’apparato produttivo continuasse ad assorbire la stessa forza-lavoro impiegata nel 1945, era necessario mantenere alto il livello delle esportazioni (all’epoca si parlava di una soglia minima di 14 miliardi di dollari) e quindi erano indispensabili mercati esteri ricettivi. Di qui la necessità di una Europa (occidentale) ricostruita e ricondotta all’interno del sistema capitalistico (a guida statunitense). Nello stesso periodo, la contrapposizione tra Usa e Urss costringeva Washington ad agire perché i paesi europei occidentali non finissero nella sfera di influenza sovietica, in quanto ciò avrebbe significato il costituirsi di un blocco economico poco permeabile, se non ostile, agli interessi economici statunitensi, con conseguenti difficoltà per lo sbocco delle merci “made in Usa”.
Esigenze di politica (economica) interna e disponibilità di notevoli risorse finanziarie erano state decisive perché il piano Marshall divenisse realtà.
Da allora, ogni volta che gli effetti di una crisi in un’area geografica è divenuta intollerabile per l’Europa, c’è sempre stato qualcuno che prima o poi ha proposto un neo-piano Marshall come soluzione miracolosa.
Tornando alla proposta di Laura Boldrini, oggi chi dovrebbe farsi carico, politicamente ed economicamente, di questo nuovo “piano Marshall”?
Forse l’Europa, prostrata da otto anni di grave crisi economica, disunita al suo interno tra paesi filo-europeisti tiepidi, paesi che operano per recuperare porzioni di sovranità popolare ceduta in passato a Bruxelles e addirittura chi, come la Gran Bretagna, affronterà tra poche settimane un referendum per decidere se restare nella Unione?
Forse l’Europa, che ha già il suo bel daffare nel tenere in ordine i conti pubblici, comunitari e degli Stati membri, e non riesce a mettere in atto misure efficaci per risollevare l’economia e far scendere il tasso di disoccupazione comunitario al di sotto del 10%?
E quale forza politica europea o anche singolo statista, ammesso che ne esistano ancora, riuscirebbe a convincere l’opinione pubblica europea – disunita anch’essa – ad accettare gli oneri derivanti da un simile impegno finanziario?
Forse potrebbe nuovamente pensarci l’America, che però da paese creditore settanta anni fa si è trasformato, negli ultimi trent’anni, in paese cronicamente indebitato e che continua a peggiorare il suo debito pubblico per mantenere e accrescere una potenza militare comunque insufficiente per dominare sullo scacchiere mondiale come vorrebbero a Washington? Sarebbe difficile per Washington reperire le risorse necessarie all’impresa, ma ancor più difficile far accettare il progetto agli americani, in un periodo caratterizzato da venti di neo-isolazionismo.
Oggi esiste forse un solo paese al mondo che dispone delle risorse finanziarie sufficienti per imbarcarsi in una avventura simile: la Cina. Malgrado la sua economia abbia riscontrato negli ultimi anni un evidente rallentamento, continua pur tuttavia a far registrare tassi di miglioramento su base annua che per i paesi occidentali costituiscono solo un pallido ricordo della “età dell’oro” degli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo (nel 2015 il PIL cinese è cresciuto del 6,9%, quello statunitense del 2%).
Alla Cina potrebbe non dispiacere estendere la propria influenza nell’area mediorientale e magrebina. Ma il club dei paesi occidentali sarebbe disposto, in nome del bene delle popolazioni interessate in quelle regioni, a cedere il passo ai salvatori venuti da Pechino?