Medio Oriente. Nessuna tregua in attesa della tempesta perfetta

di Giovanni Caruselli

La ferma determinazione del governo israeliano di estendere il campo di battaglia alla Cisgiordania e al Libano non fa dormire i responsabili della politica estera dell’amministrazione Biden, e non solo loro. Gli Usa sono già impegnati pesantemente nella guerra in Ucraina e nel fronteggiare i cinesi in Estremo Oriente. Se le scelte di Israele dovessero provocare l’intervento dell’Iran non basterebbero le attuali forniture di armi a Gerusalemme per fronteggiare la situazione. Inoltre con le elezioni a pochi giorni, mentre Trump può mantenere una posizione di sostanziale disimpegno rispetto a tutta la questione, Biden e la Harris devono dire chiaramente agli americani come ritengono di poter evitare un’altra guerra in Medio Oriente. E devono farlo avendo l’opinione pubblica mondiale ostile a Netanyahu. Malgrado ciò la Casabianca continua a tacere sull’attacco effettuato in Libano con i cercapersone contro Hezbollah, che ha ucciso anche qualche civile, e su tutti gli altri crimini di guerra commessi da Israele. Le ripetute consultazioni di Blinken con l’Egitto e il Qatar finalizzate a mettere in guardia Netanyahu, e soprattutto a convincerlo ad accettare un piano di pace nella striscia di Gaza, per il momento non sortiscono alcun effetto, malgrado le condanne dell’opinione pubblica internazionale.
Se si considera che le guerre di religione sono durate secoli, si può legittimamente dedurre che questo non potrà concludersi facilmente. L’ipotesi che viene avanzata è che la leadership israeliana abbia adottato il principio della guerra perenne, aspettando che, grazie alla pressione della comunità internazionale, i palestinesi accettino di fare di un altro territorio circostante la propria patria. In quest’ottica si può anche capire la ragione dell’accelerazione delle operazioni militari, considerando soprattutto gli andamenti demografici. La natalità in Israele, come in altri Paesi sviluppati, tende a ridursi fino a non garantire più un ricambio generazionale stabile. Nella tradizione islamica invece si perpetua l’abitudine di costituire gruppi familiari numerosi che producono un incremento in valori assoluti della popolazione. Il permanere della situazione presente in un imprecisato futuro non gioca quindi a favore degli israeliani, che devono tentare di “chiudere la partita” nel più breve tempo possibile anche a rischio di subire pericolose aggressioni da parte dei Paesi confinanti. Da questo punto di vista può essere corretto dire che ogni guerra si presenta come una guerra dal cui esito dipende la sopravvivenza stessa della nazione ebraica. Ancora di più se si considera che al tradizionale schieramento ostile dei Paesi arabi si è aggiunta negli ultimi decenni la forza militare e demografica della Repubblica Islamica dell’Iran. Le azioni di commando contro le strutture di Teheran che lavorano alla realizzazione della bomba atomica hanno certamente rallentato il programma, ma non è pensabile che riescano a bloccarlo. Quindi a una specie di accerchiamento che somiglia molto a quello che precedette la “guerra dei sei giorni” del 1967, si aggiunge una minaccia mai prima subita da Israele. L’Iran è un Paese demograficamente imponente, in cui buona parte della popolazione nutre un sentimento antisemitico feroce e che da anni accresce i suoi dispositivi militari. Non deve stupire che, per il momento il governo di Teheran non abbia attaccato lo Stato ebraico in quanto molto probabilmente ciò è dovuto al fatto che quando ciò accadrà la repubblica islamica si sarà preparata bene alle evenienze del conflitto, e per il momento non lo è al 100%. Le numerose condanne che le Nazioni Unite hanno indirizzato contro il governo di Gerusalemme non vengono prese in considerazione perché la maggioranza dell’estrema destra sionista al potere considera la Galilea e la Samaria come due regioni appartenenti al proprio Stato, che per circostanze storiche di lungo periodo hanno ospitato e ospitano una popolazione che non ha alcun diritto di rivendicarle come propria patria.
Alcuni sociologi sostengono che l’infanticidio è una forma di guerra preventiva. Pensando ai 24 bambini uccisi nel bombardamento sul Libano del 23 settembre, a quelli uccisi nella striscia di Gaza e a quelli che prevedibilmente moriranno nelle prossime settimane, tale definizione sembra essere tragicamente corretta.