Messico. Perché il movente della morte del giornalista Rubén Espinosa non è il furto

di Marco Dell’Aguzzo –

espinosa rubenVenerdì 31 luglio, in un appartamento nella colonia Narvarte, un bel quartiere a sud di Città del Messico, sono state ammazzate cinque persone: il fotoreporter Rubén Espinosa, 31 anni; l’attivista e antropologa Nadia Vera Pérez, 32 anni; la truccatrice e studentessa Yesenia Quiroz Alfaro, 18 anni; l’aspirante modella Mile Virginia Martín (all’inizio chiamata Nicole), 31 anni; la domestica e mamma Olivia Alejandra Negrete, 40 anni.
Mile, Olivia e Yesenia sono le vittime invisibili, rimaste per tanto tempo senza neanche un nome e indicate complessivamente come “tres mujeres”, “tre donne”. Su Twitter, nel tentativo di restituire loro una fisicità e di trascinarle fuori dall’anonimato, è stato diffuso l’hashtag #LasVamosANombrar.
Quale significato abbia la morte del giornalista Rubén Espinosa ho cercato di esprimerlo qui su Notizie Geopolitiche in un articolo intitolato “MESSICO. Ancora un giornalista assassinato”. Ora vorrei provare invece a ragionare sulla linea di investigazione attualmente battuta dalla Procura generale della Giustizia del Distretto federale (PGJDF): il furto. Perché non sembra un movente accettabile. Perché? Perché è ridicolo, riduttivo, e non è altro che l’ennesimo tentativo di depistaggio messo in atto dalle autorità messicane per casi di questo genere.
Una cosa per volta. “Ridicolo” e “riduttivo”: perché?
Innanzitutto chiediamoci chi fossero due delle persone uccise, Rubén Espinosa e Nadia Vera. Il primo era un giornalista, un fotografo, che ha lavorato per otto anni nel Veracruz, lo stato messicano più pericoloso per chi fa giornalismo: nel 2015 sono stati assassinati, in tutto il Messico, sette giornalisti (Espinosa compreso); di questi sette, tre sono morti in Veracruz. Dal 2000 ad oggi, in Veracruz, ne sono stati uccisi diciassette. Dal 2010 il governatore eletto di questo stato nel Messico orientale è Javier Duarte de Ochoa, del centrista Partito Rivoluzionario Istituzionale. Nel corso della sua amministrazione sono stati ammazzati tredici/quattordici giornalisti (la cifra cambia a seconda dei criteri utilizzati per definire quando si è giornalisti). Rubén Espinosa compreso.
E perché, se non è morto in Veracruz?
Perché ci ha lavorato per tanti anni, e se ha deciso di fuggire è stato a causa delle minacce che continuamente riceveva e che lo avevano fatto temere per la sua vita. Espinosa aveva più volte accusato Duarte di non aver mai cercato di contrastare il clima di violenza dello stato e di attentare alla libertà d’informazione. Espinosa era un fotoreporter. E un suo scatto, che ritraeva Duarte con in testa un berretto da poliziotto – poi piazzato sulla copertina del settimanale Proceso affiancato dalla grossa didascalia “Veracruz: Estado sin ley” (“Veracruz: stato senza legge”) –, pare non sia stato affatto gradito dal governatore. Non era neanche il primo screzio tra i due: nel settembre 2013, mentre stava documentando la repressione di una protesta del sindacato degli insegnanti, Espinosa venne aggredito da alcuni poliziotti, che lo picchiarono e lo costrinsero a formattare la memoria della sua fotocamera. Sporse denuncia. Il governo di Duarte gli offrì dei soldi per ritirarla. Rifiutò.
Chi era Nadia Vera? Un’attivista politica, una dissidente, che già otto mesi prima della sua morte aveva pubblicamente annunciato di temere per la sua incolumità e per quella dei suoi familiari a causa delle intimidazioni che riceveva. Ma non è tutto: la giovane credeva che il mandante di quelle minacce fosse Javier Duarte. Disse che lo riteneva già “pienamente responsabile” di tutto quello che le sarebbe potuto accadere in futuro.
Pensare che due dei più ostinati critici dell’amministrazione Duarte, che già temevano per la loro vita, vengano assassinati simultaneamente a seguito di un furto poi degenerato in quintuplice omicidio, lo trovo, sì, ridicolo e riduttivo. E il quintuplice omicidio, poi, come si è svolto? Tutte le vittime sono state prima torturate – le donne anche stuprate – e infine uccise con un “tiro de gracia”, un “colpo di grazia”, uno sparo alla testa. Il “tiro de gracia”, come ricorda anche Fabrizio Lorusso su Carmilla on line, è in genere indice di un’esecuzione, è un segnale lanciato all’intera comunità. Decisamente troppo per un furto. Ma anche ammettendo che lo scopo di quanto successo a Narvarte fosse eliminare Rubén e Nadia, questo non significa che Mile, Olivia e Yesenia debbano essere liquidate come “vittime collaterali”: le loro vite hanno diritto alla stessa considerazione e alla stessa intensità di investigazione delle altre due, sulle quali i media – non dico a torto – si concentrano di più.
La PGJDF ha già comunque il suo presunto colpevole da sbattere in prima pagina a dimostrare che il caso è stato preso seriamente (forse la ricerca della verità un po’ meno, ma sarà il tempo a dirlo): si tratta di un uomo di circa quarant’anni con precedenti penali per stupro e aggressione, inchiodato grazie alle telecamere di sorveglianza che lo avrebbero ripreso mentre lasciava l’appartamento assieme ad altri due uomini. Le sue impronte digitali sarebbero state ritrovate sul luogo del delitto, e lo stesso accusato avrebbe ammesso di essere stato presente sulla scena del crimine, essendosi introdotto nell’appartamento per svaligiarlo in compagnia di altre due persone (che sembra conoscesse), ma ha anche dichiarato di non aver ucciso nessuno e di ignorare che i suoi presunti complici avessero intenzione di compiere una strage. Rodolfo Ríos Garza, l’uomo al comando della PGJDF, ha dichiarato di essere “molto vicino alla cattura degli altri due coinvolti nel pluriomicidio”. Ma una petizione su change.org, forse convinta che la linea seguita dalla PGJDF sia poco più che fumo negli occhi dell’opinione pubblica, sta cercando di raccogliere 75.000 firme per chiedere che si investighi piuttosto su Javier Duarte. E “Fuiste tú, Duarte” (“Sei stato tu, Duarte”, presto convertito in hashtag) è uno degli slogan più gridati e più presenti nelle manifestazioni.
Veniamo all’ultimo punto. Il movente del furto è l’ennesimo tentativo di depistaggio. Perché?
Perché le autorità statali e federali messicane cercano sempre, quando si verifica l’omicidio di un giornalista, di escludere ogni relazione tra la morte e la professione della vittima. Quando la mattina del 3 gennaio scorso, poche ore dopo il rapimento di Moisés Sánchez dalla sua abitazione in una cittadina fluviale del Veracruz, il governatore Javier Duarte fu chiamato a commentare l’accaduto, questo definì Moisés un “tassista e attivista di quartiere”, senza spendere neanche una parola sull’attività giornalistica che invece l’uomo praticava intensamente pur non essendo un professionista. Quando lo scorso 4 maggio venne ritrovato il corpo senza vita del giornalista Armando Saldaña, le autorità provvedettero a svolgere le indagini senza fare troppo rumore e a concluderle rapidamente, in una decina di giorni; talmente rapidamente che la figlia di Armando restò sconcertata dal fatto che nessuno avesse contattato la famiglia per informarla su quanto successo e perché. Quando lo scorso 2 luglio localizzarono il corpo di Juan Mendoza, Javier Duarte (sempre lui) disse che “alcuni lavoratori nei mezzi di comunicazione hanno legami con i gruppi criminali”.
E poi, non voglio fare il sospettoso, ma che nel paese col secondo più alto tasso di impunità al mondo si arrivi spesso ad una condanna repentina per chi uccide i giornalisti è quantomeno curioso. Jazmín Martínez viene uccisa il 4 gennaio; lo stesso giorno fermano i due assassini. Jesús Tapia viene ucciso il 5 gennaio; sei giorni dopo arrestano il colpevole. A trovare quello di Saldaña ce ne mettono diciotto. Per quello di Espinosa ne sono bastati cinque.

Twitter: @marcodellaguzzo