Mike Pompeo, la gestazione di un grande vertice

Il ruolo segretario di Stato nello storico vertice con Pyongyang.

di Gianluca Vivacqua

Gneo Pompeo passò alla storia per la magistrale capacità di creare stati vassalli di Roma in Medio Oriente. Mike Pompeo potrebbe passare alla storia per la capacità, altrettanto magistrale, di creare ponti di dialogo tra gli Usa e l’Estremo Oriente. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui George Walker Bush parlava di “triangolo del male” e poneva ai suoi vertici Iran, Iraq e Corea del Nord. Sembra quasi ieri, invece, che Nixon e Kissinger aprivano alla Cina, dopo anni di gelo. Oggi, nell’era di Trump, i rapporti con l’ex Celeste Impero appaiono parzialmente guastati dall’imposizione dei dazi su alluminio e acciaio (gli stessi che colpiscono anche una serie di altri paesi e l’Ue), ma è una guerra di mercato, più che politica; e poi a Pechino interessa moltiplicare le sue esportazioni negli Usa, cosa che un accordo commerciale parallelo all’applicazione dei dazi sembrerebbe garantire.
Il punto però è che se nello scacchiere diplomatico del profondo est dell’Asia c’è una porta che si socchiude per un contrasto tariffario, un’altra se ne spalanca a risolvere un nodo decisivo. Tutto politico. Fosse stato per Trump, in realtà, forse lo storico summit del 12 giugno con Kim Jong-un a Singapore sarebbe stato rimandato o rigettato (ad un certo punto, l’intenzione della Casa Bianca sembrava proprio quella di annullarlo, assecondando le nuove bizze di Kim). Ma c’era chi lavorava per lui in modo da non sprecare l’occasione: e quell’uomo è il suo segretario di Stato, tra l’altro neppure della prima ora. Pompeo, infatti, già capo della Cia, è subentrato alla guida della politica estera Usa a Rex Tillerson alla fine di aprile di quest’anno. Con un presidente costretto dallo spettro del Russiagate a bonifiche continue del suo team, Tillerson ha pagato probabilmente i suoi rapporti troppo stretti con Putin, sin dai tempi in cui era dirigente della Exxon. C’è anche da dire, comunque, che, avendo Tillerson alla sua guida, il Dipartimento di Stato americano aveva perso molto del suo appeal: tant’è che le domande di assunzione agli uffici del Foreign Service (il servizio diplomatico del governo) erano bruscamente calate della metà e circa il 60% dei funzionari di alto livello avvano scelto di licenziarsi. Trump ha avuto fiuto nell’individuare in Pompeo l’uomo giusto per rilanciare il Dipartimento: e un rilancio migliore di questo, con la conduzione in porto di un risultato di grande prestigio, proprio non poteva esserci.
L’impresa si può definire ancora più meritoria perché non è che Pompeo abbia avuto molto tempo davanti a sé per preparare le cose nel modo più calmo. Entrato in carica il 26 aprile, meno di un mese dopo il segretario si è trovato di fronte alla seria possibilità che il vertice sulla denuclearizzazione della Corea venisse cancellato. Tutto per un dietrofront improvviso di Pyongyang, l’ennesimo capriccio del suo dittatore. Che accusava Washington di non fare nulla per porre fine alle esercitazioni militari congiunte con i cugini sudcoreani. Era il 16 maggio. E ancora il 24 Kim deprecava la pretesa statunitense di una denuclearizzazione “unilaterale e completa” quando, a suo parere, sarebbe stato preferibile “un processo graduale e sincrono”, con risultati verificabili da ambo le parti.
In meno di una settimana il segretario di Stato è riuscito a fare il miracolo, anche grazie alla collaborazione del suo quasi omologo nordcoreano, Kim Yong Chol. Il 30 maggio Pompeo riusciva ad ottenere da Yong un passo storico, la prima visita negli Stati Uniti dal 2000 di un funzionario di Pyongyang. Era la svolta: il giorno dopo il ministro Usa era pronto a scrivere su Twitter che il summit sarebbe stato un’opportunità troppo importante per poterci rinunciare; esso era anzi la possibilità per il popolo nordcoreano di “costruire un futuro luminoso”. Non restava che godersi il conto alla rovescia: il 5 giugno il governo di Singapore individuava la“zona speciale” che sarebbe stata teatro del summit. Il 10 Kim arrivava nella città-stato con tutto il suo codazzo di familiari e cortigiani, e poche ore più tardi lo raggiungeva anche Trump, con un corteo presidenziale ancora più imponente. Due giorni dopo, finalmente, il momento clou: sorrisi e strette di mano davanti ai riflettori, e la firma di un documento congiunto in mondovisione. “È stato un giorno fantastico”, ha detto Trump, “un incontro onesto, diretto e produttivo”. “Ci siamo lasciati il passato alle spalle”, ha chiosato Kim, quasi a fargli eco. Dilagava l’euforia e il presidente Usa si lasciava scappare anche una quasi sconfessione delle esercitazioni congiunte Seul-Washington.
Poi, però, le grandi certezze si sono spente con i flash. E sono riemersi i dubbi. Successo diplomatico o bluff mediatico? Quello che i sorrisi di Kim e le pacche di Trump non hanno detto lo ha detto Pompeo. A lui è toccato mettere la lente sulle “righe piccole”, a beneficio soprattutto di Corea del Sud, Giappone e poi anche Cina: esercitazioni congiunte e sanzioni restano, fintanto che il processo di denuclearizzazione non sarà compiuto e verificato. L’importante era farlo capire a Kim, amichevolmente. E se davvero l’ha capito, in piena amicizia, allora quella di Singapore sarà stata una giornata non solo storica, ma anche decisiva.