NATO. Spese militari: la marcia dei falchi e la follia del 3,7%

di Giuseppe Gagliano –

Eccoci qua, a fare i conti con l’ennesimo proclama da guerra fredda del Segretario Generale della NATO, Mark Rutte. Durante il vertice del Mar Baltico, il nostro uomo ha pensato bene di lanciare un messaggio chiaro: dobbiamo “passare a una mentalità di guerra”. Per chi non lo sapesse, è il modo elegante di dire che dobbiamo spendere ancora più soldi pubblici – cioè i nostri – per armi e carri armati, mentre scuole, ospedali e pensioni continuano a essere trattati come le cenerentole dei bilanci.
Rutte, tra un’invocazione alla deterrenza e un’altra al buon vecchio armamentario bellico, ha proposto un impegno che potrebbe arrivare fino al 3,7% del PIL per la difesa. Facciamo due conti: per l’Italia, con un PIL intorno ai 2.000 miliardi di euro, significherebbe circa 74 miliardi all’anno in spese militari. Tanto per intenderci, oggi ne spendiamo meno della metà e già ci lamentiamo per i tagli al welfare. Ma tranquilli, è tutto per “prevenire la guerra”. Un concetto molto simile a bruciare la casa per impedire che prenda fuoco.
La giustificazione? La solita minaccia russa, amplificata per l’occasione. A sentire Rutte, Mosca sarebbe un mostro inarrestabile capace di produrre in tre mesi armi quanto la NATO in un anno. Insomma, la Russia sarebbe il miracolo industriale che non è mai stata, e noi poveri occidentali, nonostante le centinaia di miliardi già spesi, dovremmo correre ai ripari come scolari impreparati.
Ma non finisce qui. C’è anche la Cina, che secondo Rutte entro il 2030 avrà 1.000 testate nucleari. Bene, male, non si sa, ma di certo suona abbastanza spaventoso da giustificare un aumento delle spese militari fino al punto di rottura.
Ora, mettiamo da parte per un momento i toni apocalittici e guardiamo alla realtà. La NATO conta 31 Paesi membri, di cui 23 (quindi la maggioranza) non riescono nemmeno a raggiungere l’attuale obiettivo del 2% del PIL per la difesa. Perché? Perché hanno altre priorità. Eppure, secondo Rutte e i falchi di Washington, dovremmo arrivare addirittura al 3,7%. E se lo dice lui, bisogna crederci, giusto?
Nel frattempo, però, la Polonia spende il 4,12% del PIL per la difesa, ed è pronta a raggiungere il 4,7%. Un esempio di virtù bellica, dicono. Peccato che ciò significhi meno risorse per sanità, istruzione e infrastrutture. Ma tanto, a Varsavia, nessuno si lamenta. La propaganda è più forte dei dati.
E noi italiani? Siamo all’1,5%, e già fatichiamo a tenere in piedi gli ospedali. Qualcuno ci spieghi come possiamo permetterci di raddoppiare la spesa militare senza mandare a rotoli tutto il resto. Ma tanto, a Bruxelles, non importa: l’importante è dimostrare fedeltà alla NATO e agli Stati Uniti, anche a costo di suicidarsi economicamente.
La verità è che questo “passaggio a una mentalità di guerra” non è altro che l’ennesima scusa per ingrassare i profitti delle industrie belliche e soddisfare le ambizioni geopolitiche degli Stati Uniti. Nel frattempo, i cittadini europei continuano a pagare il prezzo di una politica che li vede come semplici pedine in un gioco di potere che non li riguarda.
Prepararsi alla guerra? Forse sarebbe meglio prepararsi alla pace, ma questa è un’idea troppo rivoluzionaria per i falchi di Bruxelles.