Nicaragua. La crisi del regime degli Ortega tra sommosse, arresti e pressioni internazionali

di Alberto Galvi –

La crisi politica del Nicaragua è ormai in corso da circa un anno, da quando sono iniziate le proteste popolari contro il governo di Daniel Ortega. Le ragioni di questi disordini sono state causate dalle proteste contro la riforma del sistema pensionistico voluta dai sandinisti. Codeste proteste hanno provocato secondo la CIDH (Comisión Interamericana de Derechos Humanos) circa 325 morti. I negoziati tra il governo Ortega e l’opposizione dell’ACJD (Alianza Cívica por la Justicia y la Democracia) per risolvere la crisi in Nicaragua sono attualmente in stallo. Le tensioni nel paese continuano nonostante i molti attori della comunità internazionale come gli Stati Uniti, le NU (Naciones Unidas), l’OEA (Organización de los Estados Americanos) fanno pressione sul regime sandinista per trovare una soluzione pacifica della crisi.
Per capire i motivi che hanno portato alle manifestazioni iniziate il 18 aprile del 2018, bisogna spiegare come è nato il movimento sandinista. Questo regime è gestito ormai da diversi anni dal FSLN (Frente Sandinista de Liberación Nacional) che prese il potere in Nicaragua dal 1979 dopo che l’ultimo governo Somoza fu rovesciato. Daniel Ortega divenne per la prima volta presidente del Nicaragua nel 1985. Dopo un ventennio di opposizione, Daniel Ortega è stato rieletto nel 2006, e da allora è rimasto sempre in carica vincendo anche le elezioni del 2011 e del 2016 insieme a sua moglie Rosario Murillo, che è stata invece eletta vicepresidente.
Il FSLN è stato da sempre accusato dagli Stati Uniti di essere troppo vicino al regime cubano di Fidel Castro e di armare la guerriglia di sinistra in El Salvador. Negli anni il FSLN si è trasformato da partito rivoluzionario in un vero e proprio partito di regime, avvicinandosi ad imprenditori, magistrati, alti ufficiali dell’esercito e perfino ad alti prelati della chiesa cattolica. Fin dal suo arrivo al potere, Daniel Ortega ha cercato di smantellare le istituzioni democratiche del paese, prendendo il controllo dei corpi di polizia e delle forze armate, istituendo inoltre gruppi paramilitari con il compito di reprimere gli oppositori politici, trasformando di fatto la rivoluzione sandinista in un regime dittatoriale.
Nessuno poteva immaginare che le proteste iniziate il 18 aprile 2018 sarebbero potute sfociare in una repressione tanto violenta. Le manifestazioni di protesta promosse dai pensionati e dagli studenti universitari a cui poi si sono aggiunte migliaia di altre persone, sono state causate dalla riforma varata dal governo Ortega sulla previdenza sociale. Il governo sandinista con la riforma dell’INSS (Instituto Nicaragüense de Seguridad Social) ha aumentato i contributi da pagare e ha ridotto le pensioni.
Dopo circa tre mesi dall’inizio delle proteste, le morti che il regime nicaraguense ha provocato per reprimere le sommosse sono diventate sempre più inaccettabili per la comunità internazionale. L’ ANDPH (Asociación Nicaragüense Pro Derechos Humanos) ha calcolato che le repressioni provocate dal regime nicaraguense, hanno provocato 351 morti. Dall’altra parte l’esecutivo ne ha riconosciuti solo 199 di morti, denunciando il 19 luglio scorso anche un tentativo di colpo di stato.
Nei mesi successivi, per far pressione contro i sandinisti è anche intervenuta la comunità internazionale con le NU, gli Stati Uniti e i paesi membri dell’OEA minacciando più volte il regime di Ortega di applicare sanzioni contro alcuni membri del suo regime se non cessavano le violenze e i soprusi nel paese centroamericano. Gli Stati Uniti hanno applicato dalla fine dello scorso anno delle sanzioni come il Nica Act”, contro i più importanti esponenti del regime come Rosario Murillo, e il consigliere per la sicurezza Nestor Moncada Lau.
Sono stati colpiti da sanzioni anche il BanCorp del Nicaragua con l’accusa di riciclaggio di denaro per la famiglia del presidente Ortega e contro Laureano Ortega Murillo, figlio del presidente. Inoltre La SIP (Sociedad Interamericana de Prensa) ha realizzato una serie di azioni per far pressione contro il regime di Daniel Ortega per evitare che si compiano ulteriori vessazioni nei confronti dei giornalisti.
A febbraio di quest’anno sono poi ripresi i negoziati tra l’opposizione dell’ACJD e il governo sandinista. A seguito delle minacce di queste sanzioni, il 20 marzo scorso il governo di Ortega aveva accettato di rilasciare tutti i prigionieri politici entro 90 giorni, con un accordo con l’ACJD e i rappresentanti dell’OEA.
Tra le parti che presenziavano all’accordo c’erano anche i rappresentanti della chiesa cattolica, nonostante alla fine di ottobre, il vescovo Silvio José Baez fosse stato perseguitato da un linciaggio mediatico da parte del regime. Fino ad ora i prigionieri politici che il regime di Ortega dice di aver liberato sono circa 200, anche se sono in libertà vigilata o agli arresti domiciliari, mentre solo circa una ventina hanno la piena libertà.  I prigionieri politici detenuti nelle carceri nicaraguensi dopo gli scontri di questi mesi sono circa 800 secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani.
L’applicazione di altre sanzioni saranno annunciate nelle prossime settimane o mesi dall’Unione Europea e di alcuni paesi membri dell’OEA. Le trattative con il regime sandinista per la liberazione degli altri prigionieri sono per il momento bloccate, nonostante l’accordo raggiunto con le opposizioni nelle scorse settimane. Il Presidente Ortega ormai è diventato un ostacolo per i negoziati, perché non facilita l’avvio verso le elezioni anticipate. Il presidente nicaraguense vuole a tutti i costi rimanere al potere fino al 2021 quando scadrà il suo mandato.