di Giuseppe Gagliano –
L’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), nata per essere il foro politico dell’emisfero occidentale, fatica da anni a ritrovare la sua rilevanza. L’insediamento del nuovo segretario generale, Albert Ramdin, ex ministro degli Esteri del Suriname, è l’ennesimo tentativo di rimettere in moto una macchina regionale che troppo spesso gira a vuoto.
Nel corso della sua prima intervista, Ramdin ha delineato gli assi del suo mandato: rinnovare lo spirito di cooperazione tra gli Stati membri, affrontare con equilibrio la crisi venezuelana e cercare un riequilibrio nei rapporti con gli Stati Uniti, principale finanziatore dell’organizzazione.
La gestione della questione venezuelana sarà, inevitabilmente, la cartina tornasole del nuovo corso. Ramdin ha promesso un approccio improntato al dialogo, evitando di prendere parte alle contese tra le diverse fazioni. Ha chiarito che il suo ruolo non sarà quello di decidere chi debba rappresentare Caracas nel consesso interamericano: questo compito, ha detto, spetta agli Stati membri.
Un’affermazione in apparenza ovvia, ma che riflette le ferite ancora aperte all’interno dell’OAS, divisa tra chi continua a sostenere l’opposizione guidata da figure come Juan Guaidó e chi, ormai, riconosce di fatto il potere consolidato di Nicolás Maduro. Ramdin si propone come facilitatore, ma la storia recente dell’organizzazione suggerisce che la neutralità, senza una precisa volontà politica collettiva, rischia di tradursi in impotenza.
Il nuovo Segretario ha ammesso, con pragmatismo, che l’OAS non può fare a meno del sostegno finanziario degli Stati Uniti. Ha annunciato che lavorerà per convincere Washington della validità dei progetti promossi dall’organizzazione. Ma il punto non è solo tecnico o contabile: finché il baricentro dell’OAS resterà a nord del Rio Grande, sarà difficile costruire una reale autonomia decisionale.
Non a caso Ramdin ha promesso di cercare fonti di finanziamento alternative: osservatori permanenti, settore privato, ottimizzazione della spesa interna. Una strategia utile, ma di lungo periodo. Nell’immediato, la sopravvivenza dell’organizzazione continuerà a dipendere da un equilibrio delicato tra assecondare e contrattare con Washington.
Nel suo programma Ramdin ha individuato anche la crisi migratoria come priorità. Ha insistito sull’esigenza di affrontare le cause strutturali delle migrazioni: sottosviluppo, disoccupazione, mancanza di prospettive. Nessuna novità, in sé. Ma l’intenzione di coinvolgere il settore privato e promuovere progetti di sviluppo sostenibile mostra almeno un tentativo di andare oltre la gestione emergenziale.
Resta da vedere se l’OAS, nel quadro attuale, potrà davvero agire come catalizzatore di investimenti e promotore di politiche regionali coordinate. Le migrazioni, d’altronde, sono un fenomeno che spesso divide più che unire, e ogni governo ha il proprio calendario elettorale da difendere.
Il primo viaggio ufficiale di Ramdin sarà in Colombia. Non solo per gratitudine verso il governo che ha sostenuto la sua candidatura, ma anche perché Bogotá rappresenta oggi una delle poche capitali latinoamericane che cerca un equilibrio tra dialogo e stabilità regionale. Un segnale politico chiaro: Ramdin vuole legittimarsi partendo da un interlocutore che ha peso, visione e credibilità.
In un’epoca in cui molte istituzioni multilaterali soffrono d’irrilevanza e paralisi, la sfida del nuovo Segretario Generale dell’OAS non sarà solo amministrativa o diplomatica. Dovrà dimostrare che esiste ancora uno spazio per una governance regionale autonoma, non subalterna e capace di affrontare le crisi con un’agenda condivisa. L’impressione, però, è che per riuscirci non basteranno i buoni propositi. Servirà coraggio politico, e una ridefinizione del ruolo stesso dell’OAS in un’America Latina sempre più frammentata.