Panama. Mulino rifiuta di diventare vittima del duello sino-americano

di Giuseppe Gagliano –

Nel cuore del Centro America, lungo quella stretta striscia di terra che collega due oceani e separa due mondi, il presidente di Panama, José Raúl Mulino, ha lanciato un segnale chiaro quanto raro: il suo Paese non sarà né scudo né bersaglio nella contesa globale tra Stati Uniti e Cina. Un’affermazione netta, coraggiosa, pronunciata con fermezza in una conferenza stampa che ha fatto il giro delle cancellerie internazionali.
Né vassallo, né satellite. Panama, ha ribadito Mulino, non sarà trascinata in una rivalità che non le appartiene. E se Washington pensava di poterne fare un avamposto strategico mascherato da cooperazione, ha ora davanti a sé un interlocutore deciso a rivendicare la propria sovranità.
A innescare lo scontro è stata l’iniziativa americana di sostituire tredici apparecchiature Huawei con “tecnologia americana sicura”. Una misura presentata dall’ambasciata statunitense come parte della strategia contro l’“influenza maligna della Cina” in America Latina. Ma Mulino non ci sta: l’ha definita una dichiarazione unilaterale e inaccettabile, che invade la sfera decisionale del governo panamense.
Il nodo è tutto politico: la sicurezza, afferma il presidente, non si costruisce svuotando la sovranità, né etichettando a piacere le scelte tecnologiche di un Paese terzo. Il linguaggio della diplomazia si è fatto troppo spesso strumento di colonizzazione semantica: “infrastruttura critica” diventa “zona NATO”, “cooperazione tecnica” si trasforma in “cambio di regime tecnologico”.
Panama invece rivendica il diritto a scegliere, a trattare con Pechino come con Washington, senza che una delle due potenze pretenda di dettare l’agenda.
Il malessere panamense è esploso anche di fronte alle recenti dichiarazioni del presidente Donald Trump, secondo cui la Cina starebbe esercitando un’influenza indebita sul Canale di Panama. Accuse gravi, dalle implicazioni strategiche profonde, che Mulino ha smentito con forza. Il Canale, ha detto, è panamense. Punto.
Non è un messaggio solo agli americani, ma anche a tutti quegli osservatori che, in nome della sicurezza marittima occidentale, sognano una neutralità del Canale “vigilata” da interessi altrui. Panama non è più, e non vuole essere, un protettorato economico in mano a contractor o alleati strategici.
Il Ministero della Pubblica Sicurezza panamense ha poi cercato di disinnescare la polemica, parlando di “incompatibilità tecnica” tra i dispositivi Huawei e le esigenze del programma avviato nel 2017 con gli USA. Ma il vero terreno di scontro resta politico. Per Washington, ogni segnale di presenza cinese è un pericolo. Per Panama, l’interferenza americana è ormai vissuta come un’umiliazione.
Mulino ha rigettato l’idea, diffusa in certi ambienti, che ogni sviluppo nel Paese sia sponsorizzato dalla Casa Bianca. “È una bugia”, ha detto. “E se Panama ha siglato nuovi accordi di sicurezza con gli USA, lo ha fatto — precisa — nel rispetto del diritto internazionale e del Trattato di neutralità del Canale”. Ma l’opposizione interna e numerosi osservatori lo accusano di aver piegato il principio di non-allineamento sull’altare della cooperazione strategica.
La vicenda panamense mette in luce un paradigma globale: nella nuova Guerra Fredda, nessuno è davvero neutrale. Ogni ponte, ogni porto, ogni cavo di rete, ogni tratto di mare diventa campo di battaglia. Panama, con il suo Canale, è il cuore logistico dell’emisfero occidentale. E per questo, per Washington, non può restare “grigia”. Deve schierarsi. Ma Mulino resiste.
La sua presa di posizione non è solo difesa della sovranità. È una sfida alla logica binaria della geopolitica, quella che divide il mondo in blocchi, alleati e nemici, protettorati e rivali. Mulino dice no. Non a Washington, né a Pechino, ma alla logica perversa secondo cui un piccolo Stato non può che essere pedina.
Ed è qui, forse, che si gioca la vera battaglia per l’autonomia del sud globale.