Perché rimuovere Trump potrebbe essere controproducente

di Giovanni Ciprotti

A pochi giorni dal passaggio di consegne alla Casa Bianca sempre più esponenti politici del mondo statunitense chiedono per Donald Trump l’applicazione del 25mo emendamento, ovvero l’allontanamento del presidente per l’impossibilità o l’incapacità di governare. Ultimo segnale quello autorevole del vicepresidente Mike Pence: riportando proprie fonti la Cnn ha reso noto che Pence non escluderebbe di invocare il 25mo emendamento nel caso in cui il presidente Donald Trump divenisse più instabile.
Le immagini del Campidoglio di Washington devastato dalla furia dei sostenitori di Donald Trump hanno fatto rapidamente il giro del mondo, suscitando angoscia e rabbia in chiunque creda fermamente nei principi della democrazia liberale, nella quale ci si confronta tra avversari politici, ci si sottopone al voto dei cittadini e si accetta l’esito delle votazioni anche quando non favorevole.
Non è la prima volta che la televisione documenta gli atti di violenza commessi nelle sedi istituzionali di qualche paese, che a volte purtroppo sfociano persino nell’uccisione di parlamentari o persone che lavorano al loro interno. Tuttavia ci siamo abituati a pensare che tali tragici episodi possano accadere soltanto in paesi fragili dal punto di vista istituzionale o governati da regimi non democratici. L’assalto a Capitol Hill è un fatto insieme gravissimo e unico negli Stati Uniti, il paese che nel mondo occidentale è da due secoli un punto di riferimento per la stabilità delle istituzioni democratiche. Per trovare qualcosa di analogo bisogna tornare indietro nel tempo al 1814, quando la Casa Bianca e il Campidoglio vennero dati alle fiamme, ma allora c’era una guerra in corso tra Stati Uniti e Gran Bretagna.
Si comprende quindi come all’ondata di sgomento e indignazione da più parti, anche all’interno del partito repubblicano, sia seguita l’ipotesi di rimozione del presidente uscente, Donald Trump, ritenuto responsabile di aver acceso oltre misura gli animi dei suoi sostenitori. Perché ha rigettato l’esito delle elezioni presidenziali di novembre; perché ha ostacolato la consolidata prassi di transizione dall’amministrazione uscente a quella che si insedierà il prossimo 20 gennaio; perché, infine, ha mobilitato “il suo popolo” per la manifestazione di protesta a Washington di mercoledì scorso, giorno fissato per la proclamazione ufficiale del futuro presidente Joe Biden da parte del Congresso americano.
Gli strumenti legali attraverso i quali realizzare l’invocata rimozione sarebbero la procedura di impeachment oppure l’applicazione del 25mo emendamento della Costituzione americana.
In entrambi i casi probabilmente si tratterebbe di un atto puramente simbolico, perché la fine del mandato presidenziale di Trump è talmente prossima da rendere non completabile nessuno dei due possibili iter. Eppure c’è chi sarebbe comunque intenzionato ad avviare una procedura, quale che sia, di rimozione di Trump dall’incarico.
Se non ci sono le condizioni per rendere concreto l’allontanamento anticipato di Trump dalla Casa Bianca, perché proseguire su questa strada? Forse per sottolineare l’inadeguatezza del presidente uscente oppure per indebolire, attaccando lui, il partito repubblicano nell’ambito della lotta politica.
Il partito democratico potrebbe in tal modo guadagnare ulteriore credito tra gli elettori incerti – alcune stime sostengono si tratti di un terzo circa dell’elettorato – ma gli effetti di lungo termine sul sistema politico americano, già esageratamente polarizzato, potrebbero essere nocivi.
Nel 2018 due docenti di scienze politiche ad Harvard, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, hanno pubblicato un libro (1) in cui spiegano i rischi a cui sono esposte le democrazie liberali e i meccanismi che le possono rinforzare o indebolire.
Nel saggio viene proposto un metodo per valutare la predisposizione al comportamento autoritario dei leader politici. Il metodo è basato su quattro indicatori, ciascuno dei quali corredato da domande da porsi per la valutazione.
I due docenti hanno applicato lo strumento a Donald Trump, il cui comportamento soddisfaceva tutti e quattro i criteri: “1) rigetto o limitata dedizione alle regole del gioco democratico (cercano di sminuire la legittimità delle elezioni, per esempio rifiutando di accettare risultati elettorali credibili?); 2) negazione della legittimità degli avversari politici (descrivono, senza alcun fondamento reale, i loro avversari come potenziali criminali, e quindi inadeguati a partecipare pienamente al gioco politico?); 3) tolleranza o incoraggiamento della violenza (approvano tacitamente la violenza dei loro sostenitori rifiutando di condannarla e punirla in modo inequivoco?); 4) disponibilità a limitare le libertà civili degli avversari (minacciano di intraprendere azioni legali o azioni punitive di altro genere contro chi li contesta nei partiti rivali o nella società civile o nei mezzi di informazione?)”.
Rileggendo il terzo indicatore alla luce dei recenti avvenimenti di Washington vengono i brividi, e forse si è tentati di dare ragione a chi oggi sostiene con forza la necessità di rimuovere Trump prima del 20 gennaio: la condanna da parte di Trump delle violenze nel Campidoglio è stata tardiva e non può cancellare tutte le occasioni in cui, negli ultimi quattro anni, ha avvelenato il clima politico.
Ma nel libro viene spiegato che non sempre conviene portare alcune azioni, ancorché legittime, fino al limite estremo.
Secondo i due autori, oltre alle regole scritte (la Costituzione e le leggi) esistono altri due elementi, non codificati, estremamente importanti perché una democrazia resti solida: la tolleranza reciproca e la temperanza istituzionale, di cui vengono fornite le definizioni.
“La tolleranza reciproca si riferisce all’idea che fintanto che i nostri rivali giocano secondo le regole costituzionali, accettiamo che abbiano lo stesso nostro diritto a esistere, competere per il potere e governare”.
“Per temperanza istituzionale si intendono tutti quegli sforzi finalizzati a evitare azioni che, pur rispettando la lettera della legge, ne violano palesemente lo spirito. […] Dove le norme di temperanza sono forti, i politici non usano fino in fondo le loro prerogative istituzionali, anche se farlo, tecnicamente, sarebbe legale, perché così facendo rischierebbero di mettere a repentaglio il sistema esistente”.
L’analisi dei due docenti di Harvard spiega che negli Stati Uniti da molto tempo si sono indeboliti entrambi i fattori. In particolare, la temperanza istituzionale, che consentiva ai due partiti di trovare compromessi soddisfacenti nei momenti di crisi, si è andata progressivamente indebolendo dalla fine degli anni Settanta, dopo l’elezione di un deputato repubblicano: Newt Gingrich.
Gingrich convinse un numero sempre crescente di parlamentari repubblicani a rifiutare qualsiasi compromesso politico con i colleghi democratici e ad attaccarli duramente, anche sul piano personale, con l’obiettivo di guadagnare il controllo del Congresso. La svolta si ebbe nella seconda metà degli anni Novanta quando, dopo l’elezione di Gingrich come Speaker della Camera, il partito repubblicano chiese l’impeachment del Presidente Bill Clinton, per comportamenti molto meno gravi di quelli che, venticinque anni prima, avevano portato alla richiesta di incriminazione e alle successive dimissioni di Richard Nixon.
I democratici, da parte loro, adottarono lo stesso metodo di lotta durante la successiva amministrazione di George W. Bush.
Da allora, i due partiti che storicamente gareggiano per la Casa Bianca si sono fronteggiati senza più esclusione di colpi, ciascuno impegnato ad ostacolare con ogni mezzo l’operato del partito al governo, anche a scapito dell’interesse generale.
I quattro anni di Trump hanno ampliato il solco tra democratici e repubblicani, nei partiti e nell’elettorato. Ma le responsabilità della spaccatura non sono soltanto di Trump e hanno un’origine lontana.
Insistere nel chiedere la rimozione immediata di Trump, senza che ci sia peraltro qualche effetto pratico, potrebbe acuire una frattura già enorme. Al contrario, smorzare i toni e approfittare del comune sdegno dei democratici e di una buona parte dei repubblicani per le ultime scellerate azioni di Trump potrebbe aiutare a ridurre le distanze tra i due partiti e consentire al futuro presidente di ricucire la ferita tra le due anime del paese.
Se, come hanno sostenuto i due professori di Harvard, la temperanza istituzionale è un fattore importante, allora potrebbe essere il momento giusto per rivitalizzarla.

Note:
1 – Steven Levitsky – Daniel Ziblatt, “Come muoiono le democrazie”, Laterza, 2019.