Perù. La politica si divide sul Trattato d’Alto Mare

di Giuseppe Gagliano

Dietro la firma cerimoniale apposta dalla presidente Dina Boluarte sul Trattato d’Alto Mare (BBNJ) durante la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano a Nizza, si è scatenato in Perù un terremoto politico e istituzionale. La ratifica, pensata come un gesto di cooperazione multilaterale e ambientale, ha innescato l’accusa più grave che possa essere mossa a un capo di Stato: quella di tradimento.
Il Trattato BBNJ, approvato nel 2023, mira a regolamentare le acque internazionali oltre le 200 miglia nautiche dalle coste, cioè aree fino a oggi prive di regole vincolanti e soggette a sfruttamento intensivo, soprattutto per pesca, estrazione mineraria sottomarina e ricerca genetica. Una zona grigia giuridica che il diritto internazionale tenta ora di delimitare, introducendo criteri di equità nella distribuzione dei benefici e tutele ambientali più stringenti.
Ma se per molti Paesi questa firma rappresenta un passo avanti verso la governance condivisa degli oceani, in Perù ha avuto tutt’altra risonanza. Il giornalista C. Alfredo Vignolo G. ha presentato una denuncia penale per “presunto tradimento della Patria”, accusando Boluarte di ledere la sovranità marittima nazionale. Il gesto, applaudito a Nizza, è diventato a Lima un caso di crisi istituzionale.
La firma tuttavia non equivale alla ratifica. Lo ha chiarito il ministro degli Esteri Elmer Schialer: l’accordo entrerà in vigore solo dopo la ratifica di almeno 60 Paesi e un’attesa di 120 giorni dalla firma. Ma intanto, sul fronte interno, il Paese si è spaccato. Le principali confederazioni imprenditoriali – dai settori della pesca a quello industriale – hanno denunciato l’accordo come una minaccia per la sicurezza alimentare, gli investimenti privati e la capacità decisionale nazionale in materia di risorse ittiche.
Il cuore del dibattito non è giuridico, ma simbolico. Per un Paese che non aderisce nemmeno alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), l’adesione al Trattato BBNJ viene vissuta come un’apertura rischiosa verso un diritto internazionale percepito come influenzato da logiche ONG-iste e occidentali. I settori produttivi paventano l’ingerenza di interessi stranieri, l’influenza delle ONG e la perdita di “controllo nazionale” su risorse considerate vitali per l’economia costiera e per il tessuto sociale delle regioni marittime.
Dall’altra parte, ex diplomatici come Hugo de Zela hanno cercato di riportare la discussione su binari razionali: il trattato non tocca le acque territoriali peruviane né la zona economica esclusiva di 200 miglia, già garantita dall’articolo 54 della Costituzione. Ma il dibattito non è tecnico: è profondamente politico. E riflette un sentimento diffuso di diffidenza verso le élite, le istituzioni multilaterali e le scelte percepite come imposte da un’agenda globalista.
Mentre il Perù si interroga su presunte cessioni di sovranità, molti altri Paesi stanno già ratificando l’accordo: Francia, Cile, Singapore, Cuba, Seychelles. Il rischio, per Lima, è quello di autoescludersi dai finanziamenti internazionali per la cosiddetta “blue economy”: progetti di conservazione, ricerca scientifica, sviluppo costiero sostenibile. Il Trattato BBNJ potrebbe infatti rappresentare una porta d’accesso a nuove forme di investimento e cooperazione nel contesto dell’Obiettivo 14 dell’Agenda ONU 2030.
La vicenda del Trattato d’Alto Mare mostra, più che una disputa sulla sovranità, una profonda frattura politica e culturale nel Paese. Da un lato, una visione tecnocratica e multilaterale della governance globale; dall’altro, un nazionalismo reattivo e sfiduciato, che vede nel diritto internazionale una trappola più che una garanzia. L’oceano, qui, non è solo una questione ambientale. È la metafora liquida di un Paese ancora alla ricerca della sua bussola.