Politica estera: il cammino in salita di Biden

di Dario Rivolta * –

Oramai è ufficiale: anche se entrerà in carica solo dal 20 gennaio, lo scorso 6 gennaio è stato certificato che il nuovo presidente degli Stati Uniti sarà Joseph Robinette Biden junior. I disordini accaduti a Washington in quella data sono un’onta che resterà a lungo nella storia della democrazia americana e nessuno, nemmeno i più fedeli sostenitori di Trump, potrà vantarsene. Comunque sia, le due Camere americane hanno deciso e se la giustizia americana non è una farsa prima o poi si farà chiarezza su quanto sia veramente accaduto prima e dopo di quei fatti. Forse si capirà anche se la volontà popolare sia stata veramente tradita oppure se l’eventuale frode non abbia comunque modificato in modo determinante il risultato finale. Nel frattempo il presidente sarà Biden e il mondo intero dovrà tenerne conto e dialogare con lui.
È opportuno, dunque, cercare di capire cosa cambierà nella politica americana dal 20 gennaio in poi.
Chi si aspetta grandi cambiamenti nella politica estera ne sarà soddisfatto da un lato e deluso da un altro. Indubbiamente con Biden cambierà lo stile, il modo di approcciarsi verso gli alleati, verso le istituzioni multilaterali e nei confronti della globalizzazione dei mercati. Ciò che rimarrà immutato sarà l’obiettivo finale, comune a tutte le amministrazioni americane anche prima di Trump: la supremazia americana nel mondo deve continuare e Washington cercherà di impedire a chiunque di poterla insidiare.
Una costante dell’approccio americano verso l’Europa è che la sua unità politica va impedita con ogni mezzo, e allo stesso modo va ostacolato ogni possibile avvicinamento tra la stessa Europa e la Russia. Durante la Guerra fredda furono gli stessi Usa a favorire la costruzione di un mercato comune nella parte occidentale del Vecchio continente e ciò era funzionale alla contrapposizione all’impero sovietico. La scomparsa di quest’ultimo avrebbe potuto lasciar sbocciare tra i membri dell’Ue la sensazione che la “protezione” americana non fosse più necessaria e che si potesse dar vita a una forza di difesa in qualche modo autonoma. In realtà si cominciò a parlarne e si immaginò perfino la nascita di un “esercito europeo”, seppur soltanto sotto forma di una forza d’intervento rapido in situazioni di crisi internazionale. Il progetto fu immediatamente ridimensionato a causa della netta opposizione statunitense. Fu stabilito che qualunque forza armata europea non assumesse mai un’organizzazione di comando stabile e si coordinasse sempre con la Nato. Agli inizi degli anni ’90 si ipotizzò la possibilità che le istituzioni europee realizzassero un “approfondimento”, nel senso che fossero rafforzate le procedure unitarie e dalla semplice unione economica si passasse gradualmente a una unione politica. Cominciarono però le pressioni americane, sostenute dai “seguaci” britannici (e dall’avidità commerciale tedesca) verso un veloce “allargamento” che includesse gli ex Paesi europei dello scomparso Patto di Varsavia. Fu subito evidente che procedere a nuovi ingressi prima di revisionare le istituzioni di Bruxelles significava abbandonare l’ipotesi di quell’approfondimento di cui si era parlato. Ogni importante cambiamento richiedeva infatti l’unanimità e, ai passati ostacoli già posti da Londra, si sarebbero aggiunti quelli dei nuovi arrivati. Soprattutto da Polonia e Romania, oggetto di “particolari attenzioni” da parte americana. Anche il “gruppo di Visegrad”, nato in tempi più recenti, difficilmente avrebbe visto la luce senza l’approvazione di Washington.
Tutte le amministrazioni d’oltreoceano, svanita con l’arrivo di Vladimir Putin la possibilità di ridurre a “vassallo” la Russia, cominciarono poi a sottolineare la necessità di “contenerla” per evitare suoi (per quanto improbabili) desideri espansionistici a spese dei Paesi dell’est-europeo. Con l’aiuto dei soliti britannici, degli svedesi e dei polacchi favorirono quindi discretamente la nascita del Partenariato orientale attraverso il quale l’Ue mirava ad attirare nella propria orbita, in cambio di aiuti economici, tutti i Paesi che erano restati ancora troppo vicini a Mosca e ne subivano l’influenza. Lo scopo non dichiarato degli americani era, ed è, di creare ogni forma di ostacolo a una possibile collaborazione tra il gigante economico europeo (e in particolare la Germania) e la Russia. Anche quando alcuni presidenti americani vollero provare a intavolare buoni rapporti con Mosca (ricordate il tentativo di “reset” lanciato da Obama?), ciò fu tentato passando sopra le teste degli europei e mirando a un accordo bilaterale privilegiato tra Washington e Mosca senza il coinvolgimento di Bruxelles.
Anche Trump puntava a “recuperare” la Russia, ma i problemi interni creatigli con il Russiagate lo rese impossibile. Ciò che invece fece, a differenza dei suoi predecessori, fu di dire a voce alta ciò che gli altri avevano sempre perseguito pur smentendolo a parole: far di tutto per impedire che l’Europa potesse diventare un soggetto autosufficiente rispetto agli Usa. Da qui l’insistenza sui rapporti bilaterali privilegiati a quelli con Bruxelles. In spregio a ogni capacità diplomatiche e lungimiranza, plaudì perfino all’uscita della Gran Bretagna e invitò perfino altri Paesi a fare altrettanto. Lanciò inoltre, e contemporaneamente, una guerra economica soprattutto contro la Germania, e cioè il Paese europeo più forte, per poi allargarla a tutti quelli che vantavano un surplus commerciale con gli Stati Uniti. Quella politica non era nuova (già durante la presidenza Obama era stato fatto scoppiare lo scandalo detto Dieselgate), ma tutto fino ad allora era rimasto al livello giudiziario e ufficialmente i rapporti politici restavano immutati.
Il comportamento grossolano di Trump obbligò gli europei, e in particolare Francia e la stessa Germania ad annunciare la necessità che l’Europa cominciasse a rendersi veramente autonoma e le dichiarazioni trumpiane contro la Nato non fecero che rendere più necessaria quella possibilità. Purtroppo l’Europa è ancora veramente così debole e divisa che non se ne è fatto nulla, e in realtà tutto è stato rinviato a dopo le nuove elezioni americane. Con la speranza che un nuovo presidente sarebbe stato più ragionevole.
Indubbiamente il linguaggio di Biden sarà molto rassicurante. Farà di tutto per ricordare ai partner europei che l’America è un alleato sicuro, che la Nato riconfermerà tutta la sua valenza, che gli Usa ribadiranno la volontà di riconoscere il multilateralismo come metodo di dialogo internazionale. Il nuovo presidente deciderà anche il rientro nell’Accordo di Parigi, probabilmente nell’OMS, si riprometterà di poter ridare vita all’accordo con l’Iran sul nucleare e cercherà di rilanciare l’apparenza di un possibile dialogo con la Cina.
Tuttavia nei fatti le cose non cambieranno di molto. Per quanto riguarda l’Europa, nonostante l’approccio formalmente più amichevole verso Bruxelles e Berlino, Biden continuerà ad opporsi al NorthStream II e a far di tutto perché sia impossibile una vera distensione europea con Mosca. La richiesta che tutti i membri dell’Alleanza Atlantica investano in essa almeno il due percento del loro PIL era già antecedente a Trump e, seppur con meno violenza verbale, sarà mantenuta. Le diatribe sul deficit commerciale saranno affidate alla diplomazia ma, anche per le pressioni che gli arriveranno dall’economia interna, spingerà per ottenere una più favorevole perequazione. Ritorsioni? Provi l’Europa tutta ad applicare al web tax su Google e similari, la bonomia scomparirà d’incanto. Quanto ad aiutare una vera unità politica europea non se ne parla nemmeno. Purtroppo, ciò che né i repubblicani né i democratici sembrano avere ancora capito è che continuare a criminalizzare la Russia, sottoporla a sanzioni e proibire il farvi investimenti ha spinto Mosca, seppur riluttante, nelle braccia di Pechino e questo sarà il più grande problema del futuro.
Come Trump ha dovuto far retromarcia nelle sue intenzioni di aprire alla Russia, per Biden farlo con la Cina sarà ancora più difficile. Di là dagli affari veri o presunti che il figlio ha avuto con società cinesi controllate dallo Stato, la consapevolezza che Pechino rappresenti il vero grande pericolo alla supremazia americana è oramai diventata bipartisan e né il Congresso né il Senato permetteranno mai di dimenticarlo. Probabilmente i colloqui riprenderanno, ma le questioni Hong Kong, Taiwan e Xinjiang resteranno sul tavolo come un ostacolo negoziale molto ingombrante, se non addirittura insuperabile. A ciò si aggiunge la gara tecnologica verso l’intelligenza artificiale e la domanda su chi controllerà il 5G. L’interruzione dei rapporti economici tra i due Paesi ha delle forti controindicazioni, ma le società americane che avevano investito in Cina si sono in gran parte già delocalizzate e chi vi fabbricava componenti ha cominciato a guardare verso Vietnam e Malesia. Da parte cinese è improbabile che Pechino voglia realmente mettere mano ai suoi comportamenti in merito agli aiuti di Stato e al rispetto della proprietà intellettuale, almeno per qualche anno ancora. Il problema Usa con la Cina non è solamente una questione di bilancia commerciale, ma piuttosto l’ambizione di espandere la propria presenza economica e politica nel mondo. È possibile che, se prima non scoppierà un conflitto aperto, si arrivi a un qualche accordo tra le due potenze. Se si spera che duri non sarà tuttavia cosa di pochi mesi o anni e probabilmente non sarà l’amministrazione Biden ad arrivarci. Se nel frattempo l’Europa non avrà saputo trovare una sua voce unica che le consenta di partecipare a quel tavolo a parità di condizioni, finirà col diventare terra di conquista di entrambi. Biden cercherà di coinvolgere gli europei (o almeno qualcuno degli Stati che contano) nelle prime negoziazioni, ma lo farà solo per avere un potere negoziale maggiore ed evitare di vedersi colpito alle spalle da un’intesa Cina-Europa (cosa che Trump aveva, per così dire, sottovalutato).
Sarà impossibile per Biden recedere dalla decisione di Trump di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, tanto più che su quell’area, grazie al genero Kushner, il Tycoon ha raggiunto l’unico vero successo della sua politica estera. Il fatto che Emirati, Bahrein, Marocco, Sudan e Kuwait abbiano riallacciato le relazioni diplomatiche con Israele rappresenta qualcosa che modifica favorevolmente tutta la situazione mediorientale. Non è nemmeno da escludere che l’Arabia Saudita possa seguire a breve la stessa strada (rapporti segreti tra i due Stati si presume che esistano da molto tempo ma ufficialmente restano ostili) e la nuova amministrazione americana non può certo rimettere tutto in discussione. Lo stesso vale per la fine dell’embargo saudita contro il Qatar.
Molto più complicata è la questione iraniana. Sulla scia di quanto fatto da Obama, ci si aspetta che Biden rilanci la possibilità di rientrare nel Jcpoa e di eliminare le sanzioni che hanno spinto Teheran a riprendere l’arricchimento dell’uranio. Un primo problema sta però nel fatto che non esistono solo le sanzioni stabilite a suo tempo per la questione nucleare che la firma dell’accordo aveva cancellato. Prima di quelle esistevano già sanzioni stabilite in varie circostanze da Reagan, da Clinton, dai due Bush a cui si erano aggiunte le ultime lanciate dallo stesso Trump (comprese quelle dette “secondarie” che colpiscono chiunque continui a fare affari con l’Iran). Eliminarle tutte richiede la volontà del Congresso e procedure che non sono né brevi né semplici. Nonostante i democratici abbiano mantenuto la maggioranza del Congresso e abbiano parità di voti al Senato (il vice presidente democratico potrebbe fare la differenza ma si tratta di un solo voto), non è detto che l’eliminazione di tutte possa ottenere il consenso sufficiente tra i parlamentari. Va ricordato che alcune sanzioni riguardano le accuse di terrorismo e il non rispetto dei diritti umani e anche molti democratici sono particolarmente sensibili a questi temi.
Oltre al problema interno americano, non si può sottovalutare che l’eventuale ripresa di un accordo con l’Iran susciterebbe una forte reazione negativa da parte di Israele e Arabia Saudita. Come bypassare l’azione delle lobby israeliana e saudita che mobiliteranno tutte le loro forze dentro gli stessi Stati Uniti?
Inoltre esistono problemi interni iraniani. Contrariamente a quanto gli osservatori superficiali possano credere, in Iran non esiste un potere monolitico. Se è vero che l’arbitro finale nella politica estera (e non solo) resta il Grande ayatollah, anche lui deve fare i conti con forze intestine contrapposte. L’uscita degli Usa dal Jcpoa ha rafforzato i settori iraniani più conservatori che si sono sempre opposti a quell’accordo, e in particolare ha dato spazio alle Guardie rivoluzionarie (Irgc). Costoro tengono sotto scacco il presidente Hassan Rohani e sembrano almeno per ora godere del supporto di Khamenei. Poiché durante il 2021 si terranno in Iran le elezioni presidenziali, è facile immaginare che riprendere o no i contatti con l’occidente sia uno degli argomenti del dibattito politico. È improbabile che a Teheran si sia veramente disposti a rinegoziare il trattato con l’intento di arrivare a un chiarimento definitivo prima di queste elezioni.
Se anche si ricominciasse a ridiscutere il Jcpoa, torneranno a galla le questioni la cui assenza nell’accordo suscitò le maggiori contestazioni: l’interferenza di Teheran nella politica dei paesi vicini, la presenza di forze militari iraniane non ufficiali in Iraq, in Siria e gli aiuti agli houthi dello Yemen. Inoltre il problema dello sviluppo di armi missilistiche di difesa e di offesa. Chi mai in Iran accetterà di fare marcia indietro su questi argomenti?
Per finire non vanno sottovalutati gli interessi russi e cinesi nell’area. Entrambi hanno continuato a mantenere rapporti economici e politici con Teheran nonostante le sanzioni americane. L’isolamento attuato dall’occidente nei confronti dell’Iran li ha favoriti. Tutti sanno che, se si riaprissero le porte dei commerci con Usa ed Europa, gli iraniani preferirebbero queste strade a quelle russo-cinesi. Ne deriva che, seppur non alla luce del sole, Pechino e Mosca faranno di tutto per creare nuovi ostacoli ad una vera pacificazione. Cammino in salita, dunque, per Biden anche in questa direzione.