Principi di condotta militare: distinzione della popolazione civile

di Maddalena Pezzotti

Il principio di distinzione è un dettame basico del diritto internazionale umanitario. Dispone che possono essere attaccati solo i combattenti e i bersagli militari, con l’obiettivo di preservare la popolazione e i beni di carattere civile negli scontri bellici. Si applica sia nei conflitti internazionali sia in quelli non internazionali. La sua violazione costituisce un crimine di guerra (art. 8.2.b dello statuto della Corte penale internazionale).

Le azioni dei soldati sono imputate allo Stato di cui sono organi e, se catturati, hanno titolo al trattamento di prigionieri di guerra. La loro detenzione non deve avere uno scopo punitivo e, piuttosto, rispondere a un’unica finalità: impedire che possano ancora contribuire alle ostilità. D’altro canto, chi violi il diritto internazionale umanitario può essere sottoposto a giudizio. Il trattamento non viene concesso ai cosiddetti combattenti non privilegiati: le spie e i sabotatori che non indossano l’uniforme delle forze armate, altri combattenti che non hanno le armi a vista, e i mercenari. A questi, tuttavia, deve essere accordato lo standard di umanità sancito dall’art. 3 comune e l’art. 75 del I Protocollo aggiuntivo (1977) delle Convenzioni di Ginevra.

Il Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja (1907) descrive tre categorie di combattenti legittimi: gli effettivi dell’esercito, i membri delle milizie e dei corpi volontari, e la levata in massa, riferita alla popolazione di un territorio non occupato che, all’avvicinarsi del nemico, prende, in forma spontanea, le armi per combattere le truppe di invasione. La levata in massa non è ammessa in un territorio occupato: la popolazione civile, per essere annoverata fra i combattenti legittimi, deve formare un movimento di resistenza organizzato.

La III Convenzione di Ginevra (1949) esplicita la definizione di prigioniero di guerra, dal quale si ricavano altre due categorie: gli integranti dei corpi di resistenza organizzati e quelli di forze armate di un governo o un’autorità non riconosciuti dall’avversario. Il I Protocollo aggiuntivo include, poi, fra i combattenti legittimi, i movimenti di liberazione nazionale e le guerriglie che lottano contro la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e regimi razzisti, nell’esercizio del diritto dell’autodeterminazione dei popoli. Stati Uniti, Israele e Pakistan non hanno ratificato il suddetto Protocollo, opponendosi all’ampliamento alle ultime due categorie.

Per salvaguardare i civili, tutti i combattenti hanno il dovere fondamentale di contraddistinguersi dalla popolazione mentre sono impegnati in un’offensiva o in un’operazione preparatoria, oltre a portare in maniera discernibile le armi, devono essere comandati da una persona responsabile per i propri subordinati, in una chiara catena di comando e controllo, e restare conformi alle leggi e gli usi di guerra. Se non lo fanno, perdono lo status di combattente legittimo e, di conseguenza, non fruiscono della tutela riservata ai prigionieri di guerra. Il codice penale militare di guerra italiano è severo in materia: contempla la pena dell’ergastolo (in precedenza fucilazione al petto).

Un’attenuazione si trova in quei particolari contesti in cui, a causa della natura del conflitto, non sempre è facile separare combattenti e civili non partecipanti. Una dichiarazione interpretativa, depositata dai paesi Nato e da alcuni non compresi nell’Alleanza, stabilisce che la protezione può essere accordata in situazione di territorio occupato, essendo sufficiente che il combattente esibisca apertamente le armi in concomitanza con ogni spiegamento, singolo o collettivo, che precede un attacco e per tutto il tempo in cui è esposto alla visuale dell’avversario (art. 44 par. 3).

Secondo la dichiarazione interpretativa di Italia e Belgio, per spiegamento deve essere inteso “ogni movimento verso un luogo dal quale sia possibile sferrare un attacco”. Le armi devono essere, quindi, mostrate dall’uscita del combattente dal campo base al suo rientro. In un contesto urbano, dove è difficile precisare quale sia il campo base, questo può coincidere con l’abitazione privata.

La travagliata formulazione dell’articolo, frutto di compromessi, e a cui sono stati apportati 13 emendamenti ufficiali, ne conferma la criticità. Da un lato, si voleva estendere la copertura giuridica ai guerriglieri, per incentivarli a conformarsi al diritto internazionale umanitario, offrendo in cambio le protezioni previste, e isolando quanti conducono operazioni contrarie alle regole. Dall’altro, vi era l’esigenza di garantire l’identificazione dei combattenti per assicurare la neutralità e la difesa della popolazione.

A tutto ciò, si somma la complessità di inquadrare il concetto di partecipazione diretta o attiva, tenuto in conto che, ai sensi dell’art. 51.3 del I Protocollo aggiuntivo, i civili perdono la tutela loro accordata nel momento in cui sono implicati nel conflitto e per l’intero arco dell’adesione. Sul punto non vi è una posizione dottrinale condivisa. Si tratta, invero, di soddisfare due tendenze contrapposte: mediante la restrizione del concetto, si vuole proteggere la popolazione civile; mentre attraverso un’interpretazione ampia ed estensiva, la si vuole scoraggiare dall’intervenire.

Possono rientrare nel concetto di partecipazione diretta l’utilizzo di armi contro l’avversario; la raccolta di informazioni, inerenti alla guerra; il trasporto di combattenti, armi o munizioni, sul luogo delle operazioni; lo svolgimento di compiti di comando, nella pianificazione o decisione degli attacchi; e il reclutamento. Di converso, possono costituire esempi di partecipazione indiretta la fornitura di prodotti alimentari o medicinali; la predisposizione di analisi strategiche; la propaganda; e il sostegno generico di tipo logistico o finanziario.

Da segnalare, al riguardo, la sentenza della Corte d’appello federale degli Stati Uniti del 2010, che ha rigettato l’appello di Ghaleb Nassar Al-Bihani, cuoco di un gruppo paramilitare conosciuto come 55a Brigata araba, deportato a Guantanamo. L’appellante riteneva di dover essere trattato come civile, non avendo preso parte attiva alle ostilità. La Corte federale, nondimeno, ha sostenuto che bisognasse seguire la legislazione nazionale, piuttosto che “vaghe disposizioni e inconsistenti principi consuetudinari” del diritto internazionale umanitario.

La Corte suprema di Israele, con una sentenza del 2006, ha incluso, tra i civili che perdono la protezione, coloro che mettono a punto sistemi d’arma e si offrono quali scudi umani, posizione molto criticata dalla dottrina internazionale. La Corte, più in generale, ha esteso il concetto di partecipazione diretta al di fuori dell’area geografica del conflitto e a compiti diversi dal combattimento, abrogando così ogni legame spaziale e temporale con le ostilità. In riferimento al conflitto israelo-palestinese, il governo israeliano ha dichiarato che sono obiettivi validi le istituzioni politiche “che forniscono fondi e risorse umane” al braccio armato di Hamas.

In ordine alla durata, se il coinvolgimento è episodico, il civile non può essere attaccato nell’immediato, ma potrà essere soggetto alle conseguenze penali derivanti dalle sue azioni; se il coinvolgimento è continuativo e permanente, il civile può essere oggetto di aggressione alla stregua di un combattente. Nelle ipotesi intermedie, la valutazione dovrà essere effettuata caso per caso, sulla base degli elementi e delle informazioni disponibili. Questa posizione è stata sostenuta, peraltro, da un gruppo di esperti del Comitato internazionale della Croce Rossa. Essendo problematico enunciare con ragionevole attendibilità il nesso di relazione del civile con il gruppo combattente, nel dubbio o mancanza di elementi forti e convincenti, si presumerà, pertanto, che il coinvolgimento sia episodico e non permanente.

Infine, secondo le norme sui diritti umani, le esecuzioni mirate sono legali se rese necessarie per contrastare un pericolo imminente e allorquando non sia possibile l’arresto della persona. Altresì, devono essere soddisfatte le condizioni di presenza di prove contundenti e fondate, impossibilità di adottare altri mezzi per neutralizzare la minaccia, e valutazione della proporzionalità fra vantaggio militare ed eventuali danni collaterali. In materia, è importante il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza McCann e altri del 1995), che ha condannato il Regno Unito, per l’assassinio, nel 1988, di tre militanti dell’Ira a Gibilterra. La Corte ha ritenuto che non ricorreva il principio dell’assoluta necessità che potesse legittimare, ai sensi dell’art. 2 della Convenzione europea, la privazione della vita.

Si pensi, come esempio di tanti altri omicidi di Stato con vittime civili, al medico dentista palestinese, Thabet Thabet, dirigente locale di Al-Fatah, che ogni giorno attraversava posti di blocco israeliani, dove poteva essere fermato senza complicazioni, e che invece venne ucciso estragiudizialmente dall’esercito, sull’uscio di casa, a Tulkarem, nel 2000. Sulla prassi delle esecuzioni mirate, la Corte suprema di Israele ha affermato di non essere contraria alla legge internazionale, ma che la liceità di ognuna debba essere valutata con procedimenti ad hoc.