Principi di condotta militare: distinzione di beni di carattere civile

di Maddalena Pezzotti –

Nella condotta bellica bisogna distinguere tra beni civili, che non è concesso attaccare, e obiettivi militari, contro i quali è possibile realizzare azioni armate. Tuttavia, malgrado le ostilità vadano dirette unicamente verso i combattenti e sia, invece, illegittimo sferrarle sui civili (art. 51.2 del I Protocollo aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra), non tutte le operazioni che causano vittime fra questi ultimi sono indebite. Il danno collaterale, in talune circostanze, è ammissibile, purché la manovra sia rivolta all’indirizzo di un inequivocabile bersaglio strategico.

Posto che la nozione di obiettivo militare entra spesso in contrasto con quella di bene civile, e che a titolo dimostrativo, un ponte, che di per sé è un bene civile, può divenire un obiettivo militare, se serve al passaggio delle truppe, e un’autoambulanza, pur essendo anch’essa un bene civile, non può mai rappresentare un obiettivo militare, è nodale circoscrivere quali beni civili possono arrivare a costituire obiettivi militari. Le norme del diritto internazionale umanitario, infatti, non consentono di infierire su qualsiasi bene. L’art. 52 del I Protocollo aggiuntivo stabilisce la liceità di aggressioni soltanto a “beni che per loro natura, ubicazione, destinazione o impiego, contribuiscono effettivamente all’azione militare, e la cui distruzione totale o parziale, conquista o neutralizzazione, offre, nel caso concreto, un vantaggio militare preciso”.

Inoltre, il carattere consuetudinario dell’articolo vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non hanno ratificato il I Protocollo aggiuntivo, fra i quali Stati Uniti, Israele e Pakistan. I manuali della difesa statunitense lo riproducono, sebbene omettano il termine “preciso” con riferimento al vantaggio militare, in questo modo ampliando, in maniera indiretta, la propria ingerenza bellica, con ripercussioni negative sul principio di distinzione. Questo è, dunque, al centro di un ampio e acceso dibattito. Mentre è indubbio che reazioni di diverso tipo possano essere finalizzate a personale, installazioni, veicoli da combattimento, campi di addestramento, centri di comando e controllo militari, non sempre è chiaro quando un individuo o un bene civile possano essere valutati obiettivi militari.

Nella fattispecie, possono essere soppressi i premier dei governi nemici? La dottrina maggioritaria sostiene che l’intimidazione o l’eliminazione di esponenti politici siano proibite. Pertanto, un capo di Stato potrebbe essere oggetto di rappresaglia se comandante effettivo delle forze armate, si veda il caso di Saddam Hussein. In palese contraddizione a ciò, con riferimento alle strutture governative, durante la prima Guerra del Golfo, venne presa di mira proprio la leadership politica irachena, con lo scopo di fiaccarla e frammentarla.

Benché il I Protocollo aggiuntivo non provveda un’elencazione tassativa dei beni civili che possono passare a obiettivo militare, la dottrina maggioritaria esclude vantaggi militari difficili da percepire o da materializzare nel lungo periodo. Il vantaggio militare, verificato ex ante, deve essere diretto e concreto, e basarsi sull’aspettativa, in buona fede, che l’offensiva apporti un contributo definito ed effettivo alla campagna complessiva, e non a parti isolate o specifiche. In aggiunta, questi requisiti devono essere rispettati nell’ambito delle circostante preponderanti al momento esatto dell’incursione, e non nello stadio di pianificazione, atteso che, durante un conflitto, lo scenario cambia con rapidità e quello che, in una certa fase, incarna un obiettivo consentito, può non esserlo in una successiva.

Tra i beni civili, si trovano i dual use, ossia quelli che, pur destinati alla fruizione da parte della popolazione, possono sostenere lo sforzo bellico dell’avversario. I più comuni sono le stazioni radiotelevisive, le centrali telefoniche, gli impianti di produzione elettrica, le vie di comunicazione e trasporto, i depositi di petrolio, i porti e gli aeroporti. Al fine di minimizzare vittime e danni, la dottrina indica l’importanza di un’attività costante e integrata di intelligence, insieme alla necessità di evitare di affidarsi a indagini preliminari, incomplete o non del tutto affidabili.

Alcuni esempi dalla storia recente dimostrano una certa convergenza di lettura. All’epoca delle operazioni militari nei Balcani del 1999, fu colpita la stazione radiotelevisiva di Belgrado. Secondo il portavoce della Nato, il colonnello Freytag degli Stati Uniti, l’azione si giustificava alla luce del diritto internazionale umanitario, in quanto il bene civile era impiegato come centro di comando e controllo del nemico, non solo di propaganda. Dello stesso tenore, le dichiarazioni del generale statunitense Brooks, durante il secondo conflitto iracheno del 2003, in quanto la stazione televisiva nazionale era ritenuta parte di una rete di comunicazioni militari. Nel conflitto israelo-libanese del 2006, venne bersagliata la stazione televisiva di Al Manar. Per il Ministero degli affari esteri israeliano, l’intervento era da considerarsi regolare, perché usata per incitamento e reclutamento.

Altri svelano dissociazioni interpretative. La prima Guerra del Golfo provocò la devastazione dell’88 per cento degli impianti di produzione elettrica con un impatto a lungo termine sulla popolazione civile, soprattutto con severe conseguenze tra bambini e anziani, e deterioramento di ospedali e impianti di distribuzione d’acqua potabile. Nella seconda Guerra del Golfo, al contrario, venne data preferenza a strutture facili da riparare, senza effetti evidenti sulla popolazione. In Kosovo, venne causata solo un’incapacità temporanea di tali impianti, mentre in Afghanistan non vennero toccati. Nel corso del conflitto israelo-libanese, però, venne colpita la centrale di Jiyeh, con preoccupanti esiti ambientali.

Il conflitto fra l’Etiopia e l’Eritrea, segna un caso emblematico, quando nel 2000 due jet etiopici misero fuori uso la centrale elettrica di Hirgigo. La commissione arbitrale, costituita sotto l’egida della Corte permanente di arbitrato de L’Aia, e incaricata di definire i danni causati dal conflitto, ritenne che questa fosse un obiettivo militare ammesso ai sensi dell’art. 52 del I Protocollo aggiuntivo, non solo per la fornitura di energia a un porto e una base navale di rilievo, ma anche in ragione dello spessore economico del bene, la cui chiusura avrebbe potuto indurre l’Eritrea a trattare il cessate il fuoco. Con la seconda motivazione, non condivisibile per il diritto internazionale umanitario, si rischia di estendere il concetto di obiettivo militare a tutto ciò che può comportare l’inflizione di perdite finanziarie al nemico.

Di fatto, nel dubbio sulla qualificazione di un bene, come obiettivo militare o bene civile, lo stesso non potrà essere attaccato, art. 52 I Protocollo aggiuntivo para. 3, prevalendo la presunzione che non sia impiegato per contribuire con efficacia alla guerra. Quindi se si pensa che una scuola sia usata per scopi militari, il semplice sospetto, non supportato da prove fondate e convincenti, di per sé non è sufficiente a giustificare l’azione militare. Tale norma non riflette ancora una consuetudine, anche se la prassi degli Stati si evolve in questo senso.

Lo sviluppo sembrerebbe, persino, confermato dalle istruzioni emanate dalla sezione legale delle forze armate israeliane durante l’Operazione Piombo Fuso (2008-2009), secondo cui “un obiettivo dual use può essere attaccato se informazioni affidabili, conclusive e aggiornate confermano che questo è funzionale ad attività militari del nemico, e in osservazione dei principi di proporzionalità. In caso di dubbio, tale obiettivo sarà considerato civile”. Nondimeno, le caratteristiche dell’attuale offensiva di Israele, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, sconfessano ogni tentativo di rendersi sulla carta in linea con il diritto umanitario.

Oltre agli attacchi diretti contro la popolazione e i beni civili, sono vietati anche gli attacchi indiscriminati, ossia quelli che per loro natura colpiscono senza differenziare obiettivi militari e persone o beni civili. Il commentario al I Protocollo aggiuntivo del Comitato internazionale della Croce Rossa chiarisce che il divieto di attacchi indiscriminati riguarda strumenti e metodi di combattimento leciti che diventano illeciti in ragione del loro impiego indiscriminato. Tale divieto discende dal principio di distinzione. L’attacco indiscriminato è un atto illegale di belligeranza e costituisce grave violazione del diritto internazionale umanitario.

In particolare, sono considerati attacchi indiscriminati, art. 51 I Protocollo aggiuntivo para. 4, quelli che non sono diretti contro un obiettivo militare determinato (lancio di razzi che non discriminano il bersaglio); quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento che non possono essere diretti contro un obiettivo militare determinato (armamento pesante usato per attaccare un guerrigliero che si nasconde tra la folla o in un ospedale); quelli che impiegano metodi o mezzi di combattimento i cui effetti non possono essere limitati (tipologia di cluster munitions i cui effetti non sono controllati).

Per lo stesso articolo para. 5, sono considerati indiscriminati, fra gli altri, i seguenti tipi di attacchi: gli attacchi condotti mediante bombardamento che trattino come obiettivo militare unico un certo numero di obiettivi militari chiaramente distanziati e distinti, situati in una città, paese, villaggio o altra zona con concentrazione analoga di persone o beni civili (non rientra nel caso di specie il bombardamento a tappeto effettuato esclusivamente contro obiettivi militari); gli attacchi dai quali ci si può attendere che provochino morti e feriti incidentali fra la popolazione civile o danni ai beni civili che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto (principio di proporzionalità). Lo stesso precetto è espresso dall’art. 57 para. 2 b, laddove si chiede di cancellare un attacco nelle medesime circostanze.