Russia. I fondi Usa pronti a entrare in Gazprom

di Giuseppe Gagliano

Mentre l’Ue impone sanzioni alla Russia e annuncia il prossimo stop totale alle importazioni di energia, i fondi d’investimento statunitensi starebbero valutando di puntare sul gas russo, con l’obiettivo di controllare i flussi verso l’Europa. Sì, proprio quel gas che, fino a ieri, era il simbolo della dipendenza europea da Mosca e il bersaglio di una campagna di demonizzazione senza precedenti. Ma andiamo con ordine, perché la vicenda merita di essere sviscerata con la dovuta attenzione.
Secondo fonti autorevoli, come riportato da Reuters e dal Sole 24 Ore, emissari degli Stati Uniti e della Russia avrebbero avviato discussioni per esplorare la possibilità di ripristinare le forniture di gas russo verso il Vecchio Continente. Tra i nomi citati, quello di Steve Witkoff, inviato presidenziale statunitense, e Kirill Dmitriev, figura chiave negli investimenti russi sotto l’egida di Putin. L’idea, tanto audace quanto pragmatica, vedrebbe investitori americani acquisire quote di Gazprom, il colosso energetico russo, o persino dei gasdotti Nord Stream, per gestire il trasporto e la vendita del gas in Europa. Fondi del calibro di BlackRock, Vanguard e Capital Group, che già detengono piccole partecipazioni in Gazprom (tra l’1 e il 2%), sarebbero pronti a entrare in gioco, fiutando un’opportunità che mescola profitti e influenza strategica.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro. Dal 2022, l’Europa ha cercato di affrancarsi dal gas russo, rispondendo all’invasione dell’Ucraina con sanzioni e una corsa forsennata a forniture alternative. Gli Stati Uniti, con il loro gas naturale liquefatto (GNL), sono diventati i principali beneficiari di questa transizione, passando dal 5,6% delle importazioni europee di gas nel 2021 al 19,4% nel 2023. Paesi come l’Italia hanno drasticamente ridotto la dipendenza da Mosca, con le importazioni russe scese da 30 miliardi di metri cubi nel 2019 a soli 2,9 miliardi nel 2023. Eppure, il gas russo non è mai sparito del tutto: Ungheria, Slovacchia, Belgio, Francia e Spagna continuano a riceverlo, spesso sotto forma di GNL, grazie a contratti a lungo termine o alla cosiddetta “flotta ombra” che aggira le sanzioni.
Ora, però, il gioco si fa più complesso. La proposta americana non è solo un’operazione finanziaria, ma una mossa geopolitica di ampio respiro. Gli Stati Uniti, consapevoli delle difficoltà europee nel raggiungere l’autosufficienza energetica, vedono nel gas russo un’occasione per rafforzare il loro ruolo di mediatori globali. Rivendere il gas di Mosca, magari attraverso società a stelle e strisce, permetterebbe di attenuare l’opposizione politica in Europa, dove l’idea di riaprire i rubinetti russi è ancora tabù per molti governi. Allo stesso tempo, un coinvolgimento diretto in Gazprom o nei gasdotti Nord Stream darebbe a Washington un’inedita leva di controllo su un asset strategico, riducendo l’influenza diretta del Cremlino.
Non mancano, tuttavia, i paradossi. L’Europa, che ha speso miliardi per diversificare le sue fonti energetiche, rischia di ritrovarsi in una nuova dipendenza, non più da Mosca, ma da Washington. Il GNL americano, più costoso del gas russo via gasdotto, ha già pesato sulle bollette dei consumatori e sull’industria europea, che fatica a competere con i prezzi energetici di altri continenti. Inoltre, la Commissione Europea ha annunciato una roadmap per eliminare le importazioni di gas russo entro il 2027, con divieti su contratti spot e a lungo termine. Come conciliare questa strategia con l’ipotesi di un ritorno del gas russo sotto l’egida americana? La risposta, per ora, è sospesa tra pragmatismo e ipocrisia.
E poi c’è la Russia, che non sta a guardare. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha dichiarato che Gazprom sarebbe pronta a riprendere le vendite in Europa, a patto che la rete di distribuzione passi sotto un nuovo proprietario. Mosca, stretta tra sanzioni e perdite di mercato (la fine del transito attraverso l’Ucraina le è costata 5 miliardi di dollari in vendite), vede in questa apertura una chance per rientrare nel gioco, senza perdere la faccia. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere alto: cedere quote di Gazprom o dei gasdotti a investitori stranieri non è una decisione che il Cremlino prenderebbe a cuor leggero.
In questo scacchiere, l’Italia si trova in una posizione delicata. Il nostro Paese, che ha puntato su Algeria, Qatar e Stati Uniti per sostituire il gas russo, potrebbe trovarsi a dover scegliere tra l’adesione a un nuovo schema americano e la difesa degli interessi nazionali, che includono prezzi energetici competitivi e una transizione verso le rinnovabili. L’ENI, già protagonista nel mercato del GNL, potrebbe giocare un ruolo chiave, ma il rischio è che l’Europa, ancora una volta, si ritrovi a subire le decisioni prese altrove.
La vicenda, in definitiva, ci ricorda una verità scomoda: l’energia non è solo una questione di mercato, ma un’arma di potere. Gli Stati Uniti, con i loro fondi e la loro diplomazia, stanno cercando di riscrivere le regole del gioco, trasformando il gas russo da problema a opportunità. L’Europa, intrappolata tra ideali e necessità, rischia di pagare il conto più salato. E mentre i grandi attori muovono le loro pedine, il cittadino comune si chiede: chi pagherà, alla fine, il prezzo di questa ennesima giravolta geopolitica?