Russiagate: l’inchiesta di Mueller assolve Trump

di Enrico Oliari –

Il procuratore speciale per il Russiagate, Robert Mueller, non è riuscito ad incastrare Donald Trump, pur avendogli fatto terra bruciata intorno. Il rapporto di 4 pagine, consegnato al segretario alla Giustizia William Barr, indica infatti che “Il procuratore speciale non ha rinvenuto che la campagna di Trump, o qualcuno associato con questa, abbia cospirato o si sia coordinato con il governo russo nei suoi sforzi, nonostante le varie offerte giunte da individui affiliati con la Russia per assistere la campagna di Trump”.
Il presidente insomma ne è uscito pulito, e subito si è precipitato a twittare dalla residenza di Mar-a-lago che “Nessuna collusione, nessuna ostruzione. E’ stata una totale assoluzione. E’ una vergogna che il paese e che un presidente debbano passare attraverso una cosa simile”, che l’indagine di Mueller è “un colpo illegale che ha fallito” e che “Il rapporto conferma quanto gente sana di mente come noi sapeva da tempo, cioè che c’è stata zero collusione con la Russia”.
Dopo un’inchiesta durata due anni, diversi arresti, 34 incriminazioni ed alcune condanne, si allontanano dalla Casa Bianca le nuvole dell’impeachment, un’ipotesi tutt’altro che recondita se le cose si fossero concluse diversamente.
Se però la portavoce del presidente Sarah Huckabee Sanders ha affermato a caldo che “E’ una totale assoluzione del presidente”, ed il suo avvocato Rudolph Giuliani ha esclamato che “E’ meglio di quanto mi aspettassi. Nessuna collusione. Nessun reato è stato commesso”, Barr ha fatto notare che la questione di un eventuale intralcio alla giustizia commesso da Trump rimane dubbia, ovvero che “Anche se il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso un reato, allo stesso tempo non lo esonera”. Un sassolino nell’ingranaggio dello scontro politico che al Congresso rivelarsi un macigno..
Prove poche, insomma, ma indizi tanti. Anche perché è indubbio che vi fu nel giugno 2016 l’hackeraggio da parte dei russi di oltre 20mila mail dei democratici che indicavano un’operazione del comitato centrale del Partito Democratico, che avrebbe dovuto essere neutrale, volta a screditare il candidato alle primarie Bernie Sanders a vantaggio di Hillary Clinton, uno scandalo che fece crollare in breve tempo il vantaggio dell’ex segretario di Stato su Trump di 9 punti. Se l’ordine di cooperare con i russi non partì da Trump, da chi partì? E in cambio di cosa?
L’ultima sonante condanna per il Russiagate risale all’inizio del mese e vede l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, essere condannato a 3 anni e 11 mesi sostanzialmente per evasione fiscale: nei procedimenti processuali è stato stabilito che Manafort “avesse orchestrato trame per non pagare le tasse su introiti legati a consulenze per il governo ucraino, e per frodare le banche in modo da ottenere finanziamenti”. C’è tuttavia da specificare che Manafort è risultato essere stato sul libro paga del partito filorusso dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, per delle consulenze da 12,7 milioni di dollari che interessarono il periodo dal 2007 al 2012. Una montagna di denaro evasa, ma anche tanto imbarazzo per l’allora candidato repubblicano: gli inquirenti ucraini avevano informato che da una loro inchiesta su società utilizzate dal cerchio magico di Yanukovich per mantenere un lussuoso stile di vita era saltato fuori un affare di 18 milioni di dollari per vendere partecipazioni della tv via cavo ucraina a una società creata in partnership tra lo stesso Manafort e un oligarca russo, Oleg Deripaska, vicino al presidente russo Vladimir Putin.
Due anni fa si era dichiarato colpevole l’ex consigliere presidenziale Michael Flynn, da subito silurato per aver promesso (in cambio di cosa?) all’ambasciatore russo a Washington Sergey I. Kislyak l’eliminazione delle sanzioni al suo paese. Flynn ha dichiarato al procuratore speciale Robert Mueller di aver ricevuto dal genero di Donald Trump, Jared Kushner, l’ordine di prendere contatto con i russi.
All’Attorney general, cioè al procuratore generale Jeff Sessions (durato in carica pochi mesi), secondo le accuse (oggi rimaste dubbie) Trump avrebbe chiesto bellamente di “bloccare l’inchiesta di Mueller”, cioè del procuratore speciale sul Russiagate: sotto giuramento ha detto alla commissione del Senato di avere avuto rapporti con i russi durante la campagna elettorale, mentre l’Fbi aveva le prove di almeno tre suoi incontri con all’ambasciatore Kislyak.
Poi vi è l’ex consigliere politico del presidente e figura di primissimo piano alla Casa Bianca Stephen Miller, il quale è stato interrogato da Mueller in merito al siluramento del 9 maggio 2017 del capo dell’Fbi James Comey, che stava indagando proprio sulla collaborazione dello staff del presidente con i russi.
Per gli inquirenti Donald Trump Jr. avrebbe incontrato il 9 giugno 2016 l’avvocata russa Natalia Veselnitskaya, considerata vicina al Cremlino, per ottenere informazioni utili a screditare in campagna elettorale la concorrente Clinton. Erano addirittura “avidi” di informazioni, ha detto Veselnitskaya in un’intervista alla Nbc.
Il genero di Donald Trump, Jared Kushner, il quale è anche consigliere del presidente, è sotto indagine per i capitali attratti dalla sua azienda immobiliare, la Kushner Companies, provenienti dalla Russia e dalla Cina.
Ed ancora, l’ex capo stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, il quale ha definito in una dichiarazione per un libro di Michael Wolff “sovversivo” e “antipatriottico” l’incontro tra il figlio di Trump, Donald jr., e un gruppo di russi avvenuto durante la campagna elettorale del 2016 alla Trump Tower.

Robert Mueller. (Foto autoblog.com).