Usa: scacco matto, finché dura

di Gianvito Pipitone

Mai come al giorno d’oggi la corsa per la difesa degli interessi economici militari e strategici delle grandi potenze mondiali può essere accostata ad una lenta, combattuta e snervante partita a scacchi. Laddove, in estrema sintesi, ciascun giocatore cerca di ottenere il massimo della posta in gioco per mezzo delle risorse a propria diposizione: organizzative, strategiche, tattiche, ma anche fisiche, psicologiche, interpretative e culturali. Qui l’incidenza della fortuna è limitata al minimo imponderabile. Non ci si stupisce dunque se in ogni tempo la metafora degli scacchi sia stata utilizzata (e abusata) per descrivere i più svariati scenari militari e, più in generale, i movimenti di geopolitica mondiale. Chi è dunque il “re” nello scacchiere internazionale che si dipana oggi davanti ai nostri occhi? Chi i consiglieri e gli alleati e, soprattutto, chi è il nemico da combattere? Nonostante i vari distinguo con il passato, con gli Usa e la Cina a contendersi lo scettro in una “soft war” a tutto campo, sembra ripetersi lo schema della Guerra Fredda che tenne banco per quarant’anni all’indomani del secondo conflitto mondiale. Accanto ai due attori principali, resistono due attori non protagonisti, di media grandezza (la Comunità Europea e la Russia), la cui importanza in realtà è strategica e dipende molto dalle relazioni e dalle alleanze che sceglieranno di mettere in campo verso le due super potenze. Tutto intorno si stanno poi facendo strada una serie di special guests che, sfruttando una serie di camei che le finestre della Storia propongono loro, hanno iniziato a concentrare i loro interessi strategici (Iran, India, Giappone, Turchia, Israele, Arabia Saudita). Senza contare i diversi outsider, comparse che di tanto in tanto si lanciano in arditi colpi d’ala per ottenere un minimo di visibilità (Pakistan, Corea del Nord, lo stesso Egitto). Anche oggi il rischio della guerra nucleare è presente ma la probabilità di un conflitto nucleare è da escludere perché avrebbe comunque delle conseguenze troppo rovinose. Declinato lo scontro frontale fra le varie potenze, la vera guerra si sposta verso la conquista e il controllo dello spazio geopolitico mediante una competizione fintamente pacifica. Sulla definizione di “re” con riferimento agli Usa, credo si possa essere sommariamente d’accordo. Quanto poi questo re, affetto da bulimia cronica, possa essere definito “nudo”, è cosa da dimostrare. Al di là della sua maschera irricevibile, se Trump ha avuto un merito durante il suo mandato è stato forse quello di aver superato la stucchevole retorica dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, dando così forse un’idea più precisa dell’America di oggi. Nei quattro anni di presidenza Trump, gli Usa non hanno avuto alcuna perplessità a riposizionarsi al di fuori degli schemi tradizionali: definendo l’Europa come avversario, impegnandosi a ritirarsi progressivamente dall’Afghanistan e dall’Iraq e ordinando la rimozione di circa 10 mila soldati dalla Germania (per riposizionarli probabilmente in Polonia). C’è qualcosa di molto sottile in questa strategia americana degli ultimi dieci anni che da un lato si concentra sul proprio backyard e dall’altra finge di disinteressarsi dei paesi che tradizionalmente occupava militarmente. Fin dai tempi di Obama si era già arrivati alla conclusione che la cruda forza militare non poteva più bastare ad assicurare la supremazia statunitense nel mondo. E già in Libia e in Siria i Marines si erano sfilati dalle guerre in prima linea, a favore dell’impiego di gruppi di mercenari e/o terroristici direttamente collegati ai vari servizi segreti occidentali. Un modo “elegante” di fare la guerra, armando gli altri e così facendo riuscire a difendere i propri interessi: petrolio, armamenti, lotta al terrorismo, sfere di influenza. Ossia, ad occhio e croce, l’abc dell’atteggiamento del più tossico dei manipolatori. E quindi è bene rimarcare che in termini geopolitici non c’è stata alcuna discontinuità fra l’amministrazione Obama da quella di Trump e che quest’ultimo non ha fatto altro che accelerare un processo azionato durante il precedente mandato. Con buona pace dei tanti sostenitori di Obama che per il resto ce l’ha messa tutta per passare alla storia come un presidente dagli alti valori democratici. Parte integrante di questa strategia di ampio respiro sono ovviamente le guerre commerciali e le sanzioni lanciate da Washington contro la Cina e più in generale contro tutti i paesi produttori non in linea. Un altro tratto di continuità con la presidenza del passato è rappresentato dalla strategia di contenimento nei confronti di Russia e Cina, definite più volte nei documenti dall’amministrazione Trump come “entità maligne”. La politica di accerchiamento delle due più temibili potenze mondiali concorrenti passa intanto dalla crescente presenza navale e militare nel Mare Cinese, dalla massiccia vendita di armamenti ai potenziali nemici della Cina (Taiwan in primis), dalla destabilizzazione di Hong Kong e di diversi paesi come Thailandia, Kirghizistan, il Kashmir. Tutti paesi che, non a caso, potrebbero rientrare nella sfera del progetto di cooperazione della Nuova Via della Seta, promosso dalla Cina e visto di buon occhio dalla Russia. Un modo scientifico per seminare zizzania nel campo dell’avversario. Da non trascurare poi il sottile subdolo gioco d’intelligence degli Usa al confine fra Cina ed India, dove gli yankees hanno solo da guadagnare dall’eventuale scatenarsi di un conflitto regionale fra questi due giganti. Di fronte al possente nazionalismo e protezionismo sventolato dal suo predecessore sarà per lo meno curioso osservare cosa succederà con la politica del nuovo presidente Joe Biden. Percorrerà lo stesso sentiero di Trump? Di certo non nello stile. Nel corso della sua recente visita in Europa, Biden sembra sia venuto con poche idee ma abbastanza chiare a studiare il campo di battaglia e a segnare il territorio degli alleati. La prima delle sue preoccupazioni, nella cornice più ampia dello scontro Usa-Cina: scongiurare il tradimento dell’Europa con l’eventuale amante Russo; e testare il polso a Mosca, avversario granitico e mai banale, che potrebbe tornarle utile in veste anti-Cina. È un po’ presto per intuire le prossime mosse di Biden. L’impressione è che difficilmente torneranno i fasti della luna di miele di Obama con l’Europa. Il parente serpente Trump sembra abbia davvero colpito così a fondo durante il suo mandato tanto da incrinare i rapporti transatlantici, o comunque, da raffreddarne gli afflati di un tempo. Con una Europa, seppur in preda a forti mal di pancia, rientrata alla corte di Washington e isolata dalle due controparti asiatiche vicine, la Russia da un lato e il Vicino Oriente dall’altro, con la Cina accerchiata per quasi la totalità del suo perimetro sud orientale, gli Usa avranno probabilmente ancora buon gioco per imporre, per qualche decennio ancora (?) la loro supremazia economica, geopolitica e culturale sul pianeta. Prima dell’avvento dell’era cinese, per lo meno. Con buona pace dei suoi detrattori peraltro. Se non è proprio uno “scacco matto” questo… poco ci manca.