Singapore. I lavoratori stranieri fra scioperi, repressione e xenofobia

di Enrico Oliari –

Dopo ben 26 anni è iniziata a Singapore l’era degli scioperi dei lavoratori migranti provenienti dai vai paesi del Sud-est asiatico, sia per protestare contro i bassi salari, sia per la sicurezza sul lavoro, sia per le precarie condizioni a cui sono costretti a vivere nello stato a sud della penisola malese.
Non si contano più, infatti, i gruppi di lavoratori che, in modo autonomo, si astengono dal lavoro ed organizzano sit-in di protesta: ultimo, in ordine di tempo, un gruppo di 200 operai del Bangladesh, il quale ha incrociato le braccia per sette ore per denunciare gli stipendi non pagati ed il cibo pessimo passato dall’azienda.
Il governo di Singapore ha scelto la linea della repressione ed in risposta ad uno sciopero di 171 conducenti di autobus cinesi, ne ha arrestati 29 ed inflitto multe fino a 2mila dlr per istigazione ad “azioni illegali”;  il ministro del lavoro di Singapore, Tan Chuan-Jin, ha contestato lo sciopero degli autisti cinesi, affermando che “abbiamo scelto la linea della tolleranza zero per un simile atto illegale, poiché non riguarda solo i lavoratori, ma incide anche sulla vita quotidiana della comunità”.
Singapore, che è una città-stato di poco più di 5 mln di abitanti, appoggia la sua florida economia sia sul fatto di essere un paradiso fiscale, dove è possibile effettuare liberi scambi al di fuori da ogni controllo, sia sullo sfruttamento del milione e mezzo di operai stranieri, praticamente ridotti allo stato di schiavitù con la promessa di una realizzazione individuale che mai arriva.
Così, di fianco ai lussuosi grattaceli ed all’opulenza ostentata dei ricchi, vi è chi è costretto ad una vita magra, per di più umiliato da una xenofobia strisciante, fastidiosa e per nulla mascherata da parte dei singaporiani, ed addirittura punto di forza delle politiche di diversi partiti, i quali cercano di trarre consenso dall’indisposizione dei cittadini verso gli stranieri.
Tuttavia è difficile trovare a Singapore autoctoni disposti a fare i molti lavori umili, spesso in condizioni precarie, come arrampicarsi sulle impalcature senza la minima protezione o scaricare le immondizie, compiti riservati ai migranti.