di Giovanni Caprara –
Sul finire del 1970, il desiderio di accrescere la propria influenza ed egemonia sui Paesi Arabi e Mediorientali, indusse il regime iracheno ad introdurre l’energia nucleare, non solo come fonte energetica, ma come rappresentazione di uno status. La situazione politica e la condizione socio culturale dell’epoca altamente instabili, erano dettate dai continui combattimenti fra le fazioni in costante contrapposizione. In tutta l’area ristagnavano gli accaduti della Guerra dei Sei Giorni, la cui interpretazione era a favore di ogni singola Nazione: alcune si auguravano di non vivere successivi conflitti, altre covavano vendetta ed altre ancora si preparavano ad un’altra guerra.
Il reattore nucleare acquistato dall’Iraq, era parte della classe “Osiride” di derivazione francese, la cui limitazione consisteva nei lunghi tempi di assemblaggio e messa in linea. La Nazione che soffrì maggiormente dell’updating energetico iracheno, fu Israele, il quale mise in moto la sua macchina migliore: il Mossad. Lo scopo prefissato era apprendere il fine di tale implementazione, ossia in quale misura sarebbe stato coinvolto l’arsenale militare iracheno e se l’obiettivo ultimo fosse quello di sviluppare ed assemblare sistemi d’arma nucleari.
I pessimi rapporti diplomatici fra i due paesi, non prescindettero le decisioni prese nei giorni a seguire. Lo stato di contrapposizione influenzò quel sentimento di minaccia, che si insinuò nelle menti israeliane sin dalla notizia della costruzione del reattore. Tale condizione valse pesantemente sulle scelte che sarebbero diventate presto operative, benché i tecnici italiani e francesi impegnati nell’assemblarlo ne testimoniassero l’uso civile. L’acquisto del reattore era ufficiale, nulla di questa transazione venne tenuta segreta, pertanto il mondo intero si persuase sulla bontà delle intenzioni irachene, tranne Israele che lo aveva oramai identificato come l’incarnazione stessa della minaccia alla loro sopravvivenza. Per i successivi tre anni, studiarono il sistema più idoneo non solo per distruggere il sito battezzato “Osiraq Uno”, ma per cancellarlo dal luogo dove si stava erigendo ed in contemporanea dai loro incubi.
La prima valutazione tattica su cui i vertici militari si dovettero confrontare, era la distanza del bersaglio dai propri confini. L’opzione di un intervento con i commandos, venne di fatto accantonata quasi immediatamente, dunque l’unica valida restava quella di un attacco aereo. I rischi erano elevati, in quanto l’intelligence israeliana non aveva sufficienti elementi atti a valutare la minaccia antiaerea. L’unica certezza oramai radicata nella coscienza israeliana, era nella data della messa in linea del reattore e con essa l’olocausto dell’intera Nazione Ebrea: l’estate del 1981.
Il calcolo dei rischi e l’evidenza del ritardo sulla preparazione dell’incursione, indusse gli strateghi a percorrere una strada alternativa. Scelsero quella più idonea, dunque tentarono di rallentare la costruzione del sito. La vicenda, pertanto, si distinse in due tattiche diverse. Da quel momento tutto l’accaduto si tramutò in un rompicapo per le Nazioni che, loro malgrado, ne rimasero coinvolte.
Il 6 aprile 1979, un commando si introdusse furtivamente nei cantieri navali di La Seyne sur Mer, nelle vicinanze di Marsiglia, e piazzarono tre ordigni esplosivi che provocarono seri danni. L’attentato fu costruito in modo tale da essere ricondotto ad un movimento estremista interno, ma in considerazione dell’attività di assemblaggio dei componenti per l’impianto iracheno, svolto nei cantieri, il DST ipotizzò l’operazione come progettata e portata a termine dal Mossad. Ma senza prove concrete si persero nel loro imbarazzo.
I fatti accaduti in seguito, contornano la vicenda di spietatezza e determinazione spinta al parossismo: uno scienziato nucleare egiziano, Yahia el Meshad, venne incaricato dall’autorità irachena di acquistare uranio arricchito. Giunse in terra di Francia nel giugno del 1980. Qui venne agganciato da una bellissima ed affascinante prostituta, il cui nome era Maria Express. Con lei trascorse alcuni giorni, sino a quando, il 13 giugno, non fu ritrovato accoltellato a morte nella sua stanza dell’Hotel Meridien di Montparnasse. Ancora una volta i francesi dovettero far fronte ad una indagine particolarmente complicata. L’unica traccia a favore degli investigatori era rappresentata dalla donna, al secolo Marie Claude Magal. Impiegarono ben 15 giorni prima di raccogliere abbastanza informazioni sul caso ed il primo luglio, dopo averla identificata, la posero sotto interrogatorio. Ma il DST non ottenne da lei nessun elemento utile al prosieguo dell’indagine. Il 12 luglio, la Magal perse la vita investita da un’auto pirata. Una scomoda testimone fu eliminata dalla scena, ma questo confermò i sospetti che già gravavano sugli israeliani. Anche in questo caso però, ai francesi non rimase nulla in mano. Una fonte, cita anche il nome che il Mossad assegnò a questa missione, fu definita “operazione d’urgenza”. Ovviamente non venne mai confermata.
Le azioni di disturbo si moltiplicarono e gli israeliani misero in atto diversi attentati alla Snia Techint, all’Ansaldo Nucleare ed alla francese Techniatome. Come in precedenza gli egiziani ed i francesi, anche gli investigatori italiani non ottennero le prove necessarie.
Nonostante tutti gli sforzi prodotti, nella primavera del 1981, il Mossad avvisò i vertici politici che, dalla Francia, era in procinto di partire, o peggio era già in viaggio, un quantitativo pari a 90 kg di uranio arricchito. La notizia convinse gli strateghi che gli indugi andavano abbandonati.
Definito nei particolari il piano di attacco, la strategia lasciò lo spazio ai mezzi ed agli uomini; la scelta cadde su uno squadrone di F16A Fighter Falcon, per l’attacco al suolo ed un gruppo di F15A Eagle a garantire la superiorità aerea. Vennero dotati di serbatoi supplementari subalari e ventrali, in modo da poter eseguire la missione senza dover rifornire in volo i velivoli, scelta essenziale ad evitare che venissero tracciati da radar ostili. Furono affidati ai migliori piloti della IAF, Israelian Air Force, i quali nel briefing pre missione, vennero arringati del Capo di Stato Maggiore che precisò: “Non potete fallire. L’alternativa è la nostra distruzione”.
Il 7 giugno 1981, alle ore 12.55 GMT, gli aviogetti decollarono dalla Base di Etzion in Egitto, al tempo sotto il controllo israeliano a seguito della Guerra dei 6 giorni. Gli otto F16A del 117° e 110° squadrone, scortato dai sei F15A, mantennero stabilmente la quota sotto la soglia di rilevamento radar, pari a 150 piedi, mentre puntavano su Eilat ed Aqaba per poi costeggiare i confini della Giordania e sorvolare lo spazio aereo dell’ Arabia Saudita.
Alcune fonti, citano che i caccia furono visti da Re Hussein di Giordania in relax sulla sua nave che incrociava nel Golfo di Aqaba. Chiese immediatamente spiegazioni al proprio comando aereo, ma quest’ultimo non poté fornire chiarimenti, in quanto non avevano rilevato nessuna traccia radar. La rotta seguita dai velivoli era pianificata alla perfezione, ed in considerazione dei mezzi e del limitato lasso di tempo utile a reperire informazioni a favore degli israeliani, si ipotizzò il coinvolgimento statunitense. Tale congettura fu negata da uno dei piloti che rilasciò un’intervista anni dopo, ma resta l’evidenza che in quei giorni la popolazione locale denunciò vari avvistamenti di UFO, ed a una attenta analisi della descrizione rilasciata dai testimoni oculari, questi oggetti volanti risultavano essere molto simili a degli UAV.
Dopo 1000 chilometri, giunti sul deserto saudita, i caccia sganciarono gli oramai vuoti serbatoi subalari da 1400 litri e quelli ventrali da 1100 litri. Violato lo spazio aereo iracheno, la missione entrò nel pieno della fase operativa: quattro degli F15A presero quota entrando nella soglia di scoperta dei radar ostili. Gli operatori iracheni a terra, rimasero sbigottiti e disorientati da quella apparizione improvvisa, tanto da rimanere passivi. La loro capacità di reazione fu annullata quando i quattro caccia si dispersero velocemente in altrettante direzioni. Tutta la manovra aveva uno scopo diversivo. Il resto dei velivoli, infatti, proseguì indisturbato verso il bersaglio. Alle ore 14.35 GMT, giunti a 20 chilometri dal target, la formazione compì la manovra Pop Up, salendo rapidamente a 2100 metri. Impegnarono una virata con rateo angolare di 35° ad alti numeri di G ad una velocità pari a 1100 km/h ed infine scesero alla quota operativa di 1000 metri. I Fighter Falcon sganciarono due coppie di bombe MK84, con un intervallo di 5 secondi. Il nome in codice degli incursori era “Grappolo 8”. Ad ogni passaggio, trasmettevano in patria il risultato positivo del bombardamento citando nella radio il convenuto “Charlie”. La reazione delle batterie antiaree risultò tardiva quanto inutile. I sistemi di difesa entrarono in azione quando gli incursori erano risaliti a 12.200 metri, oramai in rotta di rientro.
L’attacco aereo ebbe successo in base a tre componenti tattiche fondamentali: la sorpresa, la risolutezza e la rapidità. L’intera durata dell’operazione si risolse in un minuto e venti secondi. Il successo dell’incursione venne riportato ed esaltato dalle foto satellitari: di Osiraq Uno rimanevano solo rottami.