Trump, l’Ue, i dazi e il commercio mondiale

di Giovanni Caruselli

Uno dei paradigmi fondamentali del capitalismo moderno, difeso a denti stretti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, riguarda l’assoluta positività del libero scambio commerciale. Il principio su cui si basa è che non bisogna ostacolare la circolazione planetaria delle merci con politiche protezionistiche perchè più merci circolano più i consumi crescono e di conseguenza cresce anche il benessere collettivo. A ciò si aggiunge il fatto che ambedue le guerre mondiali furono precedute da politiche protezionistiche adottate dalle principali nazioni del pianeta e ciò viene considerato una delle cause di esse. Ovviamente ciò non vuol dire che non debbano esistere regole che proteggano dalla concorrenza sleale, dalle vendite sottocosto o dal dumping. Quindi si ammette anche il principio di una ragionevole protezione dei propri produttori attraverso dazi doganali. Apparentemente tutto ciò appare ragionevole, ma nella geopolitica contemporanea non lo è. L’Organizzazione Mondiale del Commercio può denunciare pratiche illecite come il dumping o il furto di proprietà intellettuale e altro, ma nella pratica non possiede alcun potere d’intervento, analogamente a quanto si può dire sul piano politico delle Nazioni Unite.
La globalizzazione degli ultimi decenni ha fatto fare un salto di qualità alla relazione import export dei più importanti Paesi del mondo. Nell’immediato dopoguerra, a partire dagli anni Cinquanta, i rapporti commerciali incidevano sulla bilancia dei vari Stati in una misura certamente rilevante ma non ancora determinante sull’equilibrio finanziario di essi. Buona parte del mondo sottosviluppato forniva materie prime a prodotti agricoli a basso costo, ma non aveva la forza di condizionare la politica interna dei Paesi industrializzati. La crescita demografica del XX secolo nel Sud del mondo e la globalizzazione hanno cambiato lo scenario internazionale. Cina, India e Africa contano ciascuna un miliardo e mezzo di abitanti a fronte del miliardo che raggiungono l’Europa e il Nordamerica insieme. I Paesi in via di sviluppo producono ed esportano e la finanza del mondo industrializzato ha realizzato utili colossali sfruttando la manodopera a basso costo che essi mettevano a disposizione. Era inevitabile che il mercato mondiale si affollasse di produttori poveri che avrebbero lavorato per i ricchi e che la disponibilità di posti di lavoro nei Paesi industriali – anche per via dell’automazione – arretrasse progressivamente. Il problema che si presenta adesso è quello delle bilance commerciali che tendono ad andare in passivo nel Nord del mondo.
L’argomento è di strettissima attualità perchè a pochi giorni dall’insediamento del Presidente Trump si discute molto sulla politica doganale che intende introdurre, e che porterebbe a contromisure di vasta portata. Certamente l’economia non è stabile per natura (non per niente si usa spesso il termine “equilibrio”) e gli errori di valutazione possono costare parecchio. Il boom edilizio cinese – platealmente fallito per ora – ha provocato la chiusura di numerosi impianti come cementifici, acciaierie, macchinari per l’edilizia, etc… e le nuove futuristiche città fantasma attendono non si sa per quanto tempo d’essere abitate. La crescita del Pil cinese dai numeri a due cifre degli anni passati è scesa a una cifra che si attesta fra il 4% e il 5%. Le esportazioni tedesche di Suv in Cina sono crollate per la concorrenza delle nuove macchine elettriche locali e il motore dell’economia europea si è ingolfato pericolosamente.
Se è già buona norma evitare previsioni sugli indirizzi politici di un Presidente degli Usa appena eletto, nel caso di Donald Trump è superfluo sottolineare che tale regola vale il doppio. Tuttavia ci si dimentica spesso che la straordinaria stabilità dell’amministrazione statunitense è garantita dall’esistenza e dai poteri di un Congresso in cui non si tengono discussioni ideologiche, ma si operano scelte che vanno al di la dello schieramento bipartitico vigente. Va ricordato che la politica anticinese dei dazi iniziata con Trump è stata proseguita da Biden e riguardo all’immigrazione clandestina alla frontiera con il Messico il Presidente democratico non ha operato alcuna inversione di marcia. Per il momento per quanto riguarda la Cina Trump ha ribadito l’incremento del 10% dei dazi sulle merci importate e ha, invece, proposto un pesante dazio del 25% per le merci che entrano negli Usa dal Messico e dal Canada. Se così fosse verrebbe cancellato l’accordo di libero scambio vigente con i due Paesi nordamericani.
I cinesi affrontano il protezionismo americano ed europeo esportando verso Paesi terzi le loro merci ancora non assemblate. Dopo l’assemblaggio questi ultimi esportano i prodotti finiti negli Usa e in Europa. Se si dovesse combattere questa strategia occorrerebbe sanzionare con ulteriori barriere daziarie anche questi Paesi terzi in una sequenza difficile da controllare. Alla fine, però, queste manovre si risolverebbero in una crescita generalizzata dei prezzi per i consumatori americani sui quali ricadrebbe l’onere di tutta l’operazione. Il costo del lavoro in Usa non potrà mai essere paragonato a quello cinese e quindi le merci Made in Usa avrebbero un prezzo di certo molto superiore a quelle Made in China o in altri Paesi in via di sviluppo. E anche questi ultimi verrebbero colpiti inevitabilmente se Pechino ridurrà gli aiuti per rivedere la propria strategia. E, alla fine, non va ignorato che il Dragone possiede più o meno la metà del debito pubblico americano. Dunque Trump non potrà mettere il piede sull’acceleratore del disaccoppiamento che, se mai si realizzerà, sarà circoscritto e molto lento. Una parziale soluzione potrebbe venire da una politica di diversificazione degli investimenti nei Paesi poveri, prevalentemente africani, ma l’instabilità politica che li caratterizza non renderà facile la manovra.
Per quanto riguarda l’Europa difficile aspettarsi qualcosa di buono. Gli Usa hanno ottenuto ormai la possibilità di entrare nel sistema bancario cinese con lo scopo di escludere i Paesi europei dal mercato dei capitali con Pechino. In Europa il prezzo medio dell’energia è tre volte più alto che negli Usa e il presidente Trump ha “invitato” Bruxelles a considerare l’opzione di acquistare il petrolio prodotto negli Stati Uniti. Il piano ambizioso di vedere l’Europa sgombra dai fossili entro poche decine di anni per il momento sembra rallentare, sostituito come priorità, dai problemi legati all’immigrazione e alla crisi del welfare. La Germania, già citata, motore economico della Ue, attraversa una crisi economica epocale determinata da due fattori concomitanti: la fine dell’energia russa a basso costo e i disastrosi risultati delle esportazioni di auto in Cina. Trump continua a chiedere che il contributo dei Paesi Ue al mantenimento delle forze NATO cresca fino al 4 o 5 percento, data l’aggressività russa sul confine orientale dell’Unione. E il piano Draghi per la competitività richiederebbe lo stanziamento di 800 miliardi di euro all’anno, molto di più degli attuali 200. Per usare un gergo calcistico mentre l’Occidente è costretto a giocare in difesa una vasta congerie di circostanze porta il resto del mondo a giocare in attacco. Il premio in palio dovrebbe essere il progresso della collettività umana, o qualcosa di indicibile.