
di Riccardo Renzi –
L’incontro tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, tenutosi ieri alla Casa Bianca, va ben oltre il valore simbolico o protocollare. Segna infatti un possibile punto di svolta nei rapporti euroatlantici, in un momento di incertezza per l’architettura geopolitica occidentale. L’evento, scandito da parole di stima personale e convergenze politiche, è stato anche teatro di messaggi strategici, che meritano un’analisi attenta sotto il profilo delle relazioni internazionali, della sicurezza e degli equilibri commerciali.
La visita della premier Meloni rappresenta la prima trasferta europea di un leader occidentale alla Casa Bianca da quando Trump ha rilanciato la sua linea dura sui dazi all’inizio di aprile. È avvenuta nel contesto di una tregua commerciale di 90 giorni tra Stati Uniti e Unione Europea, e si è giocata tutta sul filo di un equilibrio: tra l’interesse nazionale italiano e quello comunitario, tra una visione bilaterale degli scambi e l’esigenza di mantenere compatto il fronte occidentale.
In un’epoca segnata dal riemergere delle potenze revisioniste, dalle frizioni interne alla NATO e da un’Unione Europea in cerca di leadership, la mossa di Meloni appare audace. La premier italiana ha assunto un ruolo di mediazione, proponendosi come canale privilegiato per un possibile incontro tra Trump e l’Europa – un’eventualità che il presidente americano ha detto di “considerare” in vista di una sua visita in Italia.
“L’Italia è il nostro miglior alleato se resta Meloni premier” – ha dichiarato Trump. Parole che, al di là del valore propagandistico, mettono in evidenza un possibile riposizionamento strategico: nel disegno trumpiano, l’Europa viene riletta non come blocco coeso, ma come insieme di attori sovrani, alcuni dei quali più “affini” di altri. In questo senso, Roma si propone come ponte diplomatico e commerciale tra Washington e Bruxelles, nel momento in cui la Germania mostra segni di crisi economica e la Francia è indebolita da tensioni interne e isolazionismi estemporanei.
Meloni ha quindi cercato di capitalizzare il favore personale del presidente Usa, proponendosi come garante della stabilità nell’area mediterranea e partner affidabile per la sicurezza energetica e la cooperazione nello spazio. Non a caso, ha portato in dote investimenti per 10 miliardi da parte di imprese italiane negli USA e l’intenzione di aumentare le importazioni energetiche, segnali concreti che puntano a rafforzare l’interdipendenza economica.
Il dossier dazi è stato il cuore economico dell’incontro. Trump si è mostrato ottimista, parlando di un accordo “equo” con l’Ue, mentre Meloni ha dichiarato che “un’intesa è possibile” e che “nessuna guerra commerciale gioverebbe a entrambe le sponde dell’Atlantico”. La premier ha evitato riferimenti espliciti alla strategia “dazi zero” che aveva contraddistinto i mesi precedenti, ma ha comunque ottenuto un importante segnale di apertura: la disponibilità di Trump a negoziare e a incontrare i vertici dell’Unione Europea, probabilmente a Roma.
Sul fronte difesa, l’impegno dell’Italia ad aumentare le spese al 2% del PIL entro il prossimo summit NATO è stato accolto da Trump con scetticismo (“non è mai abbastanza”), ma rappresenta comunque una svolta significativa per un Paese da anni accusato di sottocontribuire all’Alleanza Atlantica.
Quanto all’Ucraina, restano visioni divergenti. Meloni conferma il sostegno pieno a Kiev, mentre Trump – pur lodando il contributo italiano – ribadisce la necessità di una soluzione diplomatica che sembra prefigurare una discontinuità rispetto alla linea Biden-Zelensky. L’annuncio di un accordo italo-ucraino per lo sfruttamento di minerali strategici, atteso per giovedì, è un altro segnale della centralità italiana nei giochi di potere eurasiatici.
Se i temi economici e militari hanno dominato il piano ufficiale, sottotraccia si è rafforzata l’intesa politica e ideologica tra Meloni e Trump. L’accordo sui temi della lotta all’immigrazione illegale, della critica all’ideologia woke, della difesa dei valori “occidentali” è apparso evidente. Non a caso, la premier italiana ha parlato di “rendere l’Occidente forte”, parafrasando lo slogan trumpiano Make America Great Again.
Sebbene si tratti ancora di affinità più simboliche che strutturali, il messaggio è chiaro: si consolida un asse conservatore transatlantico, capace di dialogare su valori comuni, soprattutto se Trump dovesse tornare alla Casa Bianca nel 2025.
La visita di Giorgia Meloni a Washington, oltre a rappresentare un successo diplomatico personale, rilancia l’Italia in una posizione strategica nel nuovo ordine multipolare. Roma si candida a essere ponte tra l’America e l’Europa, player centrale nel Mediterraneo, e interlocutore su energia, difesa e tecnologia.
Tuttavia, molte incognite restano aperte. La volatilità politica americana, le divisioni interne all’Ue, la crescente assertività cinese e le tensioni persistenti con Mosca e Teheran, complicano il quadro. E l’equilibrismo tra interesse nazionale e unità europea sarà sempre più difficile da mantenere.
La partita sui dazi è solo all’inizio. Ma l’Italia, almeno per ora, sembra volerla giocare da protagonista.