di Giovanni Caruselli –
Fra le tante sagge sentenze del grande storico greco Tucidide ce n’è una che i politologi pragmatisti amano citare frequentemente o sottintendere: “I forti fanno ciò che devono fare, e i deboli accettano ciò che devono accettare.” La logica della forza certamente non l’avevano scoperta i greci ma fu questo popolo a considerarla il perno di una visione tragica della vita degli uomini e dei popoli. Perché in questo esordio di XXI secolo, pieno di tensioni e di catastrofi annunciate, si torna a riflettere sulla forza che si impone al momento delle svolte della storia di una certa importanza? In questo momento gli Stati Uniti e la Cina si confrontano minacciosamente per la futura leadership planetaria. Gli Usa la detengono dagli anni della seconda guerra mondiale e l’hanno gestita – in condominio con l’Urss – per un lungo periodo che viene di solito definito con due espressioni stranamente opposte: convivenza pacifica e guerra fredda (che per la verità non coincidono cronologicamente). Malgrado l’apparente contraddizione l’equilibrio del terrore nucleare, che caratterizzò buona parte del Novecento, assicurò un lungo periodo di pace e di progresso. Poi a cavallo fra i due secoli XX e XXI la situazione è cambiata prima con la crisi dell’Urss comunista, poi con la prepotente ascesa economica e militare della Cina. Chi scrive di storia ricorda che qualcosa di simile avvenne quando la Germania, prima guglielmina poi nazista, tentò di detronizzare la Gran Bretagna da quella posizione di supremazia mondiale che l’immenso impero coloniale e la strapotenza della sua flotta le conferivano da secoli. Si dice che in queste circostanze ambedue i contendenti hanno ottime possibilità di uscirne male e per quanto riguarda Inghilterra e Germania fu esattamente così. L’analogia, come tante altre nella storia, può apparire semplificatoria ma è difficile immaginare che fra due potenze nucleari una possa uscire vincente da un conflitto aperto. E anche che il mondo intero non ne risenta pesantemente.
La questione centrale, ovviamente, si riassume in una parola: competizione. Prima ancora che militare, politica o ideologica essa ci appare come competizione economica. Fino al 1990 il Dragone aveva accresciuto le sue esportazioni non poco e richiedeva da tempo di entrare a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO). Se vi fosse entrata avrebbe goduto di quel principio di dottrina economica liberista secondo cui le barriere doganali sono un ostacolo all’espansione del commercio e del volume di beni e servizi di cui fasce sempre più ampie di popolazione possono fruire. Tale dottrina trovava una forte giustificazione nella convinzione che il protezionismo esasperato avesse costituito una delle ragioni principali delle due guerre mondiali. Quando finalmente Pechino entrò nell’organizzazione e poté iniziare a esportare beni ad alta intensità di lavoro manuale a prezzi molto bassi, sembrò che tutti ne avessero dei vantaggi. Il volume del commercio mondiale e i consumi crebbero, gli investitori videro nella Cina il Paese di Bengodi in cui i capitali messi a disposizione delle fabbriche asiatiche si moltiplicavano abbastanza facilmente. Certamente la concorrenza alle fabbriche occidentali fu distruttiva ma il sistema inizialmente fu in grado di compensare lo squilibrio. Gli economisti ritenevano che la Cina avesse sostituito il Giappone e le “tigri asiatiche” nella loro mansione di fornitori di merci a basso costo e di media qualità.
Ma fu un errore clamoroso. Il Giappone e gli altri Paesi capitalisti rispettavano la regola del WTO secondo cui lo Stato interviene nell’economia solo in momenti particolari come una catastrofe naturale o una guerra. Per il resto esso deve essere neutrale in modo che la concorrenza premi i migliori e releghi in ruoli inferiori i perdenti. Il welfare in questo meccanismo svolgeva il ruolo della ciambella di salvataggio per i meno fortunati. Inoltre, essi prima o poi potevano andare a occupare nuovi posti di lavoro che si creavano con l’accresciuto benessere collettivo. In Cina le cose andavano diversamente. Erede di un sistema rigorosamente comunista, il regime di Pechino non ha mai accettato che la chiusura di una fabbrica producesse disoccupazione. Lo Stato interveniva e sosteneva i lavoratori in nome della tutela del diritto al lavoro. Poteva farlo perchè le entrate in valuta pregiata generate dalla enorme massa di merci esportate lo permettevano. Allora si incominciò a parlare di concorrenza sleale, di dumping, di manipolazione monetaria, di uso illegittimo di brevetti esteri, etc. Nel frattempo l’enorme macchina produttiva cinese lavorava anche per dotare il Paese di un esercito adeguato al suo prestigio crescente nel mondo. E iniziava a entrare in prima persona, non più solo come operatore di prodotti finiti da esportare, nei settori privilegiati del commercio, soprattutto l’elettronica. I marchi cinesi apparvero sempre più spesso nei negozi europei e americani e le aziende del Dragone scalarono le Borse con una velocità sorprendente.
Gli anni della Presidenza Trump furono, in un certo senso, anni di chiarimento della situazione. La Casa Bianca promise e attuò una politica daziaria che frenava l’invasione cinese dei mercati americani, e l’amministrazione Biden sostanzialmente ha confermato tale politica. All’irrigidimento dei rapporti economici si accompagnarono le minacce militari sempre più provocatrici di Pechino nei confronti della mai risolta questione di Taiwan, l’isola ribelle su cui la Cina rivendica la piena sovranità. I rapporti con i russi in guerra contro l’Ucraina si sono rafforzati e tutto l’Estremo Oriente teme oggi di cadere sotto il controllo dei potenti vicini.
Ma nel frattempo la globalizzazione, o meglio, come si incomincia a dire, l’iperglobalismo aveva creato nuovi problemi. Molte materie prime, prima inutili, poi essenziali per l’elettronica, erano fornite dalla Cina che, pur non avendone l’esclusiva, ne possiede in buona quantità nelle cosiddette “terre rare”. Durante la crisi pandemica l’Europa si scoprì incapace di produrre semplici mascherine e farmaci in quantità adeguate alla situazione. Si scoprì che l’India era diventata la farmacia del mondo e che difficilmente la si poteva influenzare, date le sue dimensioni. La conflittualità crescente ha subito un’accelerazione con la guerra russo – ucraina e l’Occidente ha constatato che parecchi Paesi di grandi dimensioni demografiche o economiche – per esempio Brasile e Arabia Saudita – hanno incominciato a progettare il proprio futuro formando schieramenti come i BRICS di fatto ostili all’Occidente stesso. E non finisce qui. La svolta verde che l’Occidente in qualche modo porta avanti, significa il fallimento di quei Paesi che, essendo privi di una tradizione industriale e di una mentalità imprenditoriale, basano i loro bilanci sull’oro nero e sul gas. Se a ciò aggiungiamo i vecchi conflitti sempre presenti, come quello israelo-palestinese, l’estendersi del fondamentalismo islamico, e la tumultuosa crescita demografica, abbiamo un quadro di quella che si potrebbe definire una “tempesta perfetta”.
Per evitare una guerra futura – che alcuni danno già per scontata – serve una svolta tanto difficile quanto necessaria. Bisogna trasporre sul piano economico il principio della “coesistenza pacifica”. Ciascuno degli attori deve in qualche modo riconoscere il diritto dell’altro a tutelare la propria economia da urti concorrenziali che la farebbero regredire. L’espansionismo economico senza freni non è meno pericoloso di quello politico e militare. Le strategie economiche dei singoli Paesi, giustificatissime, devono ormai tenere conto del contesto in cui vengono formulate e attuate nell’ottica di una convergenza globale di interessi che sarà tanto difficile da praticare quanto necessaria, perchè l’unica alternativa sarebbe la guerra. Per semplificare: la sovraproduzione cinese facilitata dalle sovvenzioni statali non è compatibile con le regole del mercato, giuste o sbagliate che esse siano. E le difficoltà che incontrano le politiche finanziarie degli operatori Usa nelle terre del Dragone non permettono una convivenza pacifica. E su questo democratici e repubblicani al Congresso sono assolutamente d’accordo. Le dottrine economiche attualmente in voga non offrono soluzioni non traumatiche alla competizione distruttiva. Tuttavia l’ascesa della Cina nel commercio planetario ha avuto i suoi aspetti positivi. Il calo dei prezzi di molte merci ha ridotto significativamente la povertà assoluta in molti importanti Paesi sviluppati. Inoltre in essi si è reso necessario un impulso all’innovazione che ha fronteggiato le manovre di lobbyng e i profitti improduttivi dell’alta finanza. Invece l’aspetto negativo degli ultimi decenni, di cui gli economisti non riescono a formulare un giudizio concorde, è l’allungamento delle filiere produttive, che inevitabilmente fa crescere il costo finale dei prodotti. È comunque certo che in un mondo sovrappopolato e iperglobalizzato lo spazio della cooperazione deve crescere se non si vuole correre il rischio di una catastrofe collettiva.