
di Enrico Oliari e Giuseppe Gagliano –
Il re nudo. Il bambino che ha puntato il dito è Donald Trump, e gli europei baciapantofole si sono improvvisamente resi conto che se vogliono a tutti i costi avere un nemico per far lievitare le spese militari e magari farci la guerra, devono arrangiarsi. Già, perché il capo della Casa Bianca su una cosa è stato fin da subito chiaro: prima gli interessi degli americani, “America first”. Non che con i suoi predecessori la musica sia stata diversa, tutti i presidenti Usa hanno fatto, ci mancherebbe, prima di tutto gli interessi del proprio paese. Solo che Trump è più diretto, meno ipocrita, e non parla di esportare la pace e la democrazia nel mondo a suon di bombe e di famiglie ammazzate, com’è successo in Iraq e in Afghanistan. Per lui gli europei sono niente più dei mozambicani o degli eschimesi, e anche sulla Nato è stato irremovibile: o pagate, o vi arrangiate.
Ovvio lo smarrimento della debole, per non dire puerile, classe politica europea capeggiata da Ursula von der Leyen, tagliata fuori persino dai colloqui per la pace in Ucraina e persino sbeffeggiata dallo sbarbatello vicepresidente JD Vance, che ha testé dato sacrosante lezioni di democrazia proprio agli europei: inebetiti i leader europei si sono ritrovati ieri all’Eliseo in una riunione urgente, per capire cosa fare. C’erano ovviamente il padrone di casa Emmanuel Macron, Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen, lo spagnolo Pedro Sanchez, il britannico Keir Starmer, il polacco Donald Tusk, il segretario della Nato Mark Rutte, il presidente del Consiglio Ue Antonio Costa, il premier dei Paesi Bassi Dick School, il premier danese Mette Frederiksen e il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Per intenderci i primi sostenitori dell’inglobamento dell’Ucraina nella Nato, motivo alla base dell’aggressione russa.
Il vertice ha segnato tuttavia un ulteriore passo verso la frammentazione della politica occidentale sulla guerra in Ucraina. La proposta di un’“adesione automatica” di Kiev alla NATO in caso di violazione del cessate-il-fuoco da parte della Russia rappresenta più un’arma negoziale che una reale intenzione strategica. Se attuata, implicherebbe un’accelerazione verso uno scontro diretto tra la NATO e Mosca, un rischio che gli stessi leader europei, in privato, sembrano voler evitare.
Macron, con la sua iniziativa diplomatica, ha tentato di dare all’Europa una posizione autonoma nelle trattative sulla sicurezza dell’Ucraina. Ma la realtà è che l’Ue resta prigioniera delle dinamiche transatlantiche: mentre Parigi e Berlino spingono per un maggiore protagonismo europeo, Washington continua a mantenere il pieno controllo sulla gestione della guerra e della pace. Non a caso oggi a Riad si tiene l’incontro del segretario di Stato Usa Marco Rubio con il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, in preparazione di quello di Donald Trump con Vladimir Putin. Grandi assenti l’Ue e l’Ucraina.
La presenza di Keir Starmer e il suo prossimo incontro con Donald Trump sono stati segnali chiari di un’Europa che teme la discontinuità politica di Washington, e il vero rischio è che l’Ue venga chiamata a fare scelte drastiche: assumersi il peso militare della difesa ucraina o accettare un umiliante compromesso con la Russia. L’idea di una forza di deterrenza europea di 30mila soldati, discussa al vertice, sembra più un tentativo disperato di guadagnare tempo che una vera soluzione praticabile. Anche perché c’è un problema strutturale, prima che politico: gli eserciti europei non sono pronti. Dopo anni di riduzione delle spese militari, la logistica e gli arsenali sono già in difficoltà. La Polonia, pur avendo il terzo esercito della NATO, si è sfilata fin da subito dal progetto, mentre per la Germania Scholz ha dichiarato che “non ci tireriamo indietro”, ma senza un piano chiaro su come finanziare l’operazione. Anche la Svezia e i Paesi Bassi hanno proposto condizioni. Il messaggio che emerge è stato uno solo: l’Europa vuole apparire coesa, ma nei fatti rimane divisa e impreparata.
Ma a Parigi non si è parlato solo di difesa. Perché il problema dell’energia è attualissimo, per non dire urgente. Il gas russo, formalmente escluso dalle strategie europee, resta una variabile chiave. La riduzione della dipendenza dal 45% al 10% è un successo solo sulla carta: le riserve invernali sono in calo e la necessità di energia a basso costo potrebbe riaprire la porta a Mosca. Alcuni funzionari europei valutano già la ripresa delle importazioni, segno che la resilienza economica dell’Ue è più fragile del previsto. Se la guerra si prolunga, il dibattito sul gas diventerà sempre più acceso, con effetti potenzialmente devastanti sulla credibilità delle sanzioni. A Parigi si è scoperto insomma che rinunciare al gas russo per acquistare a quattro volte tanto quello statunitense, che è di scisto e quindi proibito in Ue e portato con inquinanti navi gasiere, rientra negli interessi degli americani e non degli europei.
Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha bollato i partecipanti al vertice come “favorevoli al conflitto”, una posizione che riecheggia le critiche russe. L’Ungheria, insieme alla Slovacchia a cui l’ucraino Volodymyr Zelensky ha chiuso il gas russo, continua a rappresentare un’anomalia nell’Ue, allineandosi con Mosca su diversi dossier. La sua opposizione alle politiche guerrafondaie europee è il sintomo di una spaccatura sempre più evidente tra chi vuole portare avanti il conflitto a oltranza e chi preferirebbe negoziare, magari prima che lo facciano gli Usa.
La riunione di Parigi conferma che l’Europa è ancora prigioniera delle sue enormi contraddizioni e dei suoi roboanti proclami. Cerca di mostrarsi indipendente, ma resta subordinata a Washington. Vuole rafforzare le proprie capacità militari, ma non ha le risorse per farlo. Critica la Russia, ma non può fare a meno delle sue risorse energetiche. L’Ucraina, nel frattempo, rimane in bilico, consapevole che il suo futuro dipenderà più dai giochi di potere tra Stati Uniti e Russia che dalle dichiarazioni di intenti europee.