di Giuseppe Gagliano –
A prima vista sembrerebbe una questione tecnica, una di quelle complesse intese economiche destinate a rimanere relegate tra gli esperti di diritto commerciale e gli analisti delle materie prime. E invece, l’accordo minerario che Washington ha proposto a Kiev, e che Kiev oggi chiede di rivedere, è molto di più. È una cartina di tornasole geopolitica. È una linea di faglia tra la sovranità e la subordinazione. È, soprattutto, una finestra aperta sul vero volto delle “ricostruzioni”, quelle che si annunciano nei forum internazionali a colpi di buone intenzioni, ma che si scrivono, poi, nero su bianco, con clausole e commi che parlano la lingua dura del potere.
L’Ucraina, devastata da due anni di guerra, distrutta nelle sue infrastrutture e disgregata nel suo tessuto produttivo, rappresenta oggi un’enorme promessa per gli investitori internazionali: un Paese ricco di risorse, posizionato strategicamente e, soprattutto, bisognoso di tutto. Un soggetto debole, quindi. E come spesso accade nella storia del mondo, la ricostruzione si trasforma in un terreno di competizione neocoloniale, dove l’“aiuto” è il cavallo di Troia per il controllo di risorse strategiche.
L’accordo minerario americano, nella bozza trapelata, è un documento emblematico. Non si limita a disciplinare gli investimenti nei settori delle terre rare, del petrolio o del gas naturale: stabilisce un potere decisionale privilegiato degli Stati Uniti sugli investimenti futuri in questi settori, prevede accesso prioritario a fondi per la ricostruzione e, dettaglio non da poco, considera gli aiuti ricevuti da Kiev durante la guerra come crediti da rimborsare. In pratica, si crea un debito storico implicito, una forma di “pegno” sul futuro minerario ucraino.
È chiaro perché Zelensky e il suo governo abbiano reagito con cautela. L’accordo, così com’è, rischia di trasformarsi in una forma di commissariamento economico. Rende Washington arbitro e beneficiario di un settore chiave per il rilancio del Paese. Ma il vero nodo politico non è nemmeno questo. È il fatto che tutto questo cozza frontalmente con la prospettiva europea. Bruxelles non vede di buon occhio un’Ucraina legata mani e piedi a un quadro normativo e contrattuale statunitense che esautora le logiche comunitarie. Perché se Kiev vuole entrare nell’Unione Europea, dovrà sottostare alle regole europee sugli appalti, sulla concorrenza, sull’accesso alle risorse. L’accordo USA, in questo senso, è uno spartiacque.
Ed è proprio qui che si misura la reale indipendenza dell’Ucraina postbellica. Da un lato, la riconoscenza verso Washington per il sostegno militare e finanziario ricevuto. Dall’altro, la volontà – sancita dalla Costituzione – di integrarsi pienamente nel progetto europeo. In mezzo, la realtà brutale della guerra: una guerra che ha reso l’Ucraina dipendente, e dunque esposta alle condizioni poste dai suoi alleati più forti.
La mossa americana non è casuale. Le terre rare, così come altre risorse energetiche e minerarie presenti nel sottosuolo ucraino, rappresentano una leva fondamentale nel confronto globale con la Cina. Washington vuole ridurre la dipendenza da Pechino per l’approvvigionamento di elementi strategico, come litio, tantalio, scandio, niobio, e vede nell’Ucraina un’alternativa potenzialmente redditizia. Ma ciò che per gli Stati Uniti è un calcolo geopolitico, per Kiev rischia di diventare una trappola strutturale: consegnare il cuore economico del proprio territorio a una sola potenza, per quanto alleata, significa compromettere ogni margine di manovra.
A complicare il quadro arriva anche l’annuncio russo. Mosca ha fatto sapere di essere pronta a discutere con Washington progetti congiunti per l’estrazione di metalli rari in territorio russo. È una mossa strategica, che mira a dividere, a confondere le acque, a mostrare che l’America non è poi così ostile se c’è di mezzo il profitto. E forse a suggerire all’Ucraina che nessuna fedeltà geopolitica è eterna.
In questo contesto la reazione di Donald Trump è più che eloquente. Il presidente americano non solo ha minacciato l’Ucraina per il suo ripensamento, ma ha esplicitamente legato la firma dell’accordo al futuro politico e militare del Paese: niente firma, niente NATO. Una dichiarazione che vale più di mille trattati. Zelensky e il suo entourage si trovano oggi con le spalle al muro, costretti a scegliere tra la sicurezza promessa dagli Stati Uniti e l’appartenenza al progetto europeo. In entrambi i casi, con un prezzo politico e strategico da pagare.
Ma forse, nel mezzo di questa tensione, si apre anche una riflessione più ampia. L’Ucraina è ancora padrona del proprio destino? O è diventata, suo malgrado, una piattaforma su cui si scaricano le ambizioni e le rivalità delle grandi potenze? La ricostruzione dovrebbe essere il momento della rinascita. Ma rischia di trasformarsi nell’atto finale della perdita di sovranità. Non per colpa dei russi, stavolta, ma per la rigidità degli “amici”.
L’Europa osserva, indecisa se farsi garante o spettatrice. Washington incalza, forte del proprio peso militare ed economico. E Kiev tenta disperatamente di salvare qualcosa: la propria dignità, la propria indipendenza, e magari una parte di quel sottosuolo che oggi sembra valere più della sua bandiera.