di Lorenzo Pallavicini –
La Turchia, dopo gli Stati Uniti, è il Paese della Alleanza Atlantica più potente dal punto di vista militare e in prima linea nello scacchiere mediorientale sin dalla Guerra Fredda. L’adesione del gigante turco alla NATO, infatti, risale ai tempi in cui la Repubblica era ancora legata alle idee di Ataturk, di forti convinzioni anti comuniste e fautore della alleanza con gli Stati Uniti, in un contesto dove le basi turche erano di importanza strategica per Washington, essenziali nel contenimento dell’URSS in Medio Oriente.
Tale alleanza è rimasta solida fino alla politica neo ottomana promossa dal presidente turco Erdogan che ha visto una progressiva riduzione del laicismo forzato tipico del kemalismo e il ridimensionamento dell’ingerenza delle forze armate nella politica turca, elemento che nel 2016 aveva visto un tentativo di golpe in cui Erdogan accusò anche gli Stati Uniti per ospitare sul proprio suolo l’uomo ritenuto responsabile del fallito colpo di stato, Fethullah Gulen, un tempo sodale di Erdogan ma dissociatosi dopo il 2013 in seguito agli scandali legati alla corruzione nell’AKP, il partito del presidente.
La Turchia ha un ruolo unico nella NATO . Ad esempio, è l’unico paese, Albania a parte, a maggioranza islamica, fattore la cui ambiguità emerse durante la guerra civile siriana in cui transitarono dal territorio turco migliaia di combattenti dello Stato Islamico, nonostante il disappunto di Washington, il cui passaggio è stato consentito in chiave anti Assad, rivale dei turchi nella regione anche a causa del suo credo alevita, un ramo dell’Islam che in Turchia conta milioni di seguaci non allineati a Erdogan.
In secondo luogo, la guerra in Ucraina ha creato un unicum dove la Turchia può non allinearsi alle sanzioni economiche occidentali, incrementando gli affari con la Russia che comprendono anche scambi sensibili sulla energia atomica o il commercio di metalli preziosi, oltre al mantenimento di buone relazioni con il Cremlino, senza che l’Occidente e l’Ucraina possano interferire più di tanto.
In ultimo, lo stato di diritto in Turchia, differente rispetto agli altri membri NATO in molti aspetti, pur con elezioni regolari, uniche nel panorama islamico, e in cui secondo il rapporto annuale di Reporter senza frontiere l’indice di libertà di stampa nel Paese appare agli ultimi posti nel mondo.
Tuttavia, la presenza turca nella NATO è essenziale nel Mediterraneo e Medio Oriente, sia per contrastare la presenza dell’Iran, nemico di Israele e del suo più stretto alleato, gli Stati Uniti, sia per avere dalla propria parte il Paese economicamente più forte dell’intera area, in cui un allontanamento dalla NATO causerebbe un grave vuoto nella regione, dove la consolidata presenza russa in Siria e in Libia è vista come potenziale elemento di crisi.
Da diversi anni, Erdogan ha dimostrato di volere maggiore libertà di azione rispetto alla NATO, consapevole che il Paese per la sua importanza strategica può permettersi lussi che agli altri membri della Alleanza non sono concessi, ad esempio il mantenimento di buone relazioni con la Russia per una mediazione nel conflitto russo-ucraino o i rapporti con Hamas, organizzazione terroristica per UE e USA, mentre per Erdogan fazione politica indispensabile con cui fare i conti in Medio Oriente.
Tali condizioni paiono destinate a rimanere nel futuro, specie per la incapacità a livello comunitario di essere determinanti nella difesa atlantica vista la frammentazione politica dei singoli stati membri e la difficoltà nel prendere decisioni comuni dal punto di vista militare senza il sostegno americano, ancora oggi il più importante finanziatore della Alleanza.