Usa. Accordo con la Cina per la fornitura di terre rare

di Giuseppe Gagliano

In un mondo scosso da guerre ibride, frontiere economiche mobili e rivalità strategiche mai sopite, la notizia giunta da Singapore, rilanciata dallo Straits Times, assume un peso che va ben oltre le cifre e i documenti firmati. Gli Stati Uniti e la Cina hanno infatti formalizzato un’intesa commerciale che, secondo quanto dichiarato dal segretario al Commercio statunitense Howard Lutnick, è il frutto di trattative avviate a Ginevra nel maggio 2025 e culminate in un accordo sottoscritto due giorni fa. Il cuore dell’intesa? Le terre rare, i minerali strategici che alimentano l’economia del XXI secolo.
Ma sotto la superficie di un patto economico si nasconde un passaggio politico delicatissimo, che chiama in causa gli equilibri globali, la tenuta del sistema multilaterale e le fragilità interne tanto di Washington quanto di Pechino.
L’accordo prevede l’impegno formale della Cina a fornire regolarmente minerali di terre rare agli Stati Uniti. Non si tratta di semplici componenti: parliamo degli elementi fondamentali per la fabbricazione di armi avanzate, veicoli elettrici, aerei da combattimento, turbine eoliche, batterie, radar e semiconduttori. In altre parole, il cuore pulsante dell’industria ad alta tecnologia, tanto civile quanto militare.
Negli ultimi anni la Cina, che controlla circa l’85% della raffinazione globale delle terre rare, ha utilizzato questa superiorità come leva di pressione, non esitando a minacciare il blocco delle esportazioni nei momenti di tensione. Il nuovo accordo rappresenta quindi una svolta pragmatica, che sancisce un temporaneo allentamento delle ostilità economiche tra le due superpotenze, proprio nel momento in cui il mondo si frammenta in blocchi commerciali e tecnostrategici.
Dalla stagione caotica dei dazi trumpiani, passando per la “guerra tecnologica” condotta dall’amministrazione Biden, fino alle ritorsioni reciproche sulle piattaforme AI e sui chip, le relazioni economiche tra Cina e Stati Uniti erano arrivate a un punto di rottura. La firma di questo accordo, secondo Lutnick, rappresenta una pietra miliare che rilegittima la via del negoziato multilaterale: non a caso le trattative si sono svolte sotto l’egida dell’OMC, in un momento in cui la stessa organizzazione è sotto attacco da parte del nazionalismo economico globale.
Ma attenzione: l’accordo non nasce da una volontà di cooperazione ideologica, bensì da esigenze strutturali incrociate. Gli Stati Uniti, impegnati su più fronti, cioè Ucraina, Medio Oriente, Taiwan, non possono permettersi una crisi delle forniture strategiche. La Cina, colpita dalla recessione interna e dalle sanzioni sulle sue aziende tech, ha bisogno di riaprire i canali di export verso l’Occidente per evitare il soffocamento industriale.
Il segretario Lutnick ha lasciato intendere che l’accordo con Pechino è solo il primo passo di un piano più ampio: la Casa Bianca mira infatti a siglare analoghe intese con altri dieci “partner strategici”, presumibilmente scelti tra le economie emergenti ricche di risorse naturali (Brasile, Indonesia, Sudafrica) e gli alleati industriali occidentali (Canada, Australia, Corea del Sud, Giappone). L’obiettivo è evidente: costruire una rete di approvvigionamento controllata, fluida e sottratta all’influenza cinese, anche quando si firma una tregua apparente con Pechino.
Il rischio, però, è duplice. Da un lato, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi intrappolati in una dipendenza bilanciata, che li costringe a continuare il dialogo con la Cina proprio nel momento in cui cercano di contenerla. Dall’altro, Pechino potrebbe utilizzare l’accordo come strumento propagandistico per screditare la narrativa occidentale sul decoupling e presentarsi al Sud globale come attore razionale, responsabile e multilaterale.
La firma dell’accordo non cancella la competizione esistenziale tra Cina e Stati Uniti. Taiwan, il controllo delle rotte marittime, l’intelligenza artificiale, lo spazio, le valute digitali: i teatri del confronto si moltiplicano e si radicalizzano. Ma per ora, Washington e Pechino scelgono la via della “cooperazione conflittuale”, un equilibrio instabile in cui l’interesse nazionale prevale sull’ideologia.
In questo quadro, l’accordo sulle terre rare è un compromesso tattico, non una svolta strategica. È la conferma che l’economia globale non può ancora vivere senza la Cina, ma anche che la Cina non può più fare a meno di una minima stabilità nei rapporti con l’Occidente. È l’arte del possibile, giocata su un filo sottile tra competizione e interdipendenza.