Usa. Clima: l’industria delle armi inquina senza limiti

di C. Alessandro Mauceri

Oggi tutti parlano di “sostenibilità”, di “resilienza”, di ridurre le emissioni di CO2. E si cerca di intervenire su molti settori: edilizia, trasporti, industria e altri.
C’è un settore però al quale nessuno chiede di ridurre l’impatto sull’ambiente: quello militare. Molti eserciti sono considerati off limits, liberi di inquinare quanto gli pare. E più è grandi sono gli eserciti maggiore è il loro impatto sull’ambiente. Negli Stati Uniti d’America, nel 2019, un rapporto pubblicato dalla Durham e dalla Lancaster University ha rilevato che le forze armate erano “uno dei maggiori inquinatori climatici della storia, consumando più combustibili liquidi ed emettendo più CO2e (equivalente di anidride carbonica) rispetto alla maggior parte dei paesi”. Paragonato alle emissioni degli Stati, le forze armate USA sono il 47esimo più grande emettitore di gas serra (GHG) al mondo, solo considerando le emissioni derivanti dal consumo di carburante.
Impressionanti i consumi di combustibili fossili: per funzionare la “macchina” dell’esercito americano consuma 320.000 barili di petrolio al giorno senza considerare il carburante consumato dagli appaltatori, in strutture affittate o private o nella produzione di armi). Nel 2017, l’ aeronautica americana ha acquistato carburanti per 4,9 miliardi di dollari, la Marina per 2,8 miliardi di dollari, l’esercito per 947 milioni di dollari. L’esercito americano sarebbe responsabile di 25.000 kilotonnellate di emissioni di anidride carbonica.
L’esercito americano produce più rifiuti pericolosi delle cinque maggiori aziende chimiche statunitensi messe insieme. Sono 39.000 le aree contaminate distribuite su decine di milioni di acri solo negli Stati Uniti. Le basi militari statunitensi sono in cima alla lista dei Superfund dei luoghi più inquinati (il perclorato e il tricloroetilene penetrano nell’acqua potabile, nelle falde acquifere e nel suolo).
Molti anche gli “incidenti” che sarebbe stato possibile evitare. Nel dicembre 2021, alle Hawaii, circa 6.000 persone si ammalarono a causa del carburante fuoriuscito da un deposito della Marina militare. In North Carolina, nella base militare di Camp Lejeune, circa un milione di persone avrebbero bevuto acqua contaminata e respirato rifiuti tossici causati dall’abitudine di bruciare la spazzatura in fosse di combustione dove venivano gettati dai computer ai mobili, ai rifiuti sanitari.
Eppure, nonostante tutto ciò, dell’impatto sull’ambiente degli eserciti si è parlato molto poco. A cercare di scoprire questo vaso di Pandora è stata Neta C. Crawford, della Boston University su The Pentagon, Climate Change, and War: Charting the Rise and Fall of US Military Emissions dell’autrice. “Sebbene dalla metà del XX secolo il Pentagono sia stato in prima linea nella ricerca sui cambiamenti climatici, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (DOD) è anche il più grande utilizzatore istituzionale di combustibili fossili al mondo. Dal 2001, i militari sono stati responsabili del 77-80% del consumo energetico federale. Il DOD gestisce più di 560.000 edifici in circa 500 basi in tutto il mondo. E come una gigantesca multinazionale, fa affidamento su una vasta rete di navi, camion, aerei e altri veicoli a combustibili fossili per supportare le sue operazioni, dallo sgancio di bombe alla consegna di aiuti umanitari, tutto ciò rende l’esercito un contribuente fondamentale alla modificazione del clima”.
L’interesse della Crawford sull’impronta ambientale dell’esercito Usa è iniziato con un piccolo articolo che scrisse per il Costs of War Project. Dopo ciò le sue analisi sui danni ambientali collegati alle missioni di pace in diversi paesi sono diventate sempre più approfondite. Dalle guerre post 11 settembre in Iraq e Afghanistan a quelle in Pakistan e Siria. Per riuscire a scrivere il libro la Crawford ha ammesso che “l’ostacolo maggiore è stato la mancanza di trasparenza e il risultato di fare manualmente i calcoli, dal momento che le cifre non erano pubblicamente disponibili”. Solo recentemente, il Congresso ha deciso di rendere pubbliche certe cifre. Secondo la Crawford, solo “Negli ultimi due anni, le emissioni militari statunitensi sono di circa 51 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 all’anno”. Un valore superiore alle emissioni della maggior parte dei paesi.
Parlando dell’esercito americano, Patrick Bigger, del Lancaster University Environment Center, ha dichiarato: “ La sua politica climatica è fondamentalmente contraddittoria: confrontarsi con gli effetti del cambiamento climatico pur rimanendo il più grande consumatore istituzionale di idrocarburi al mondo, una situazione in cui è bloccato negli anni a venire a causa della sua dipendenza dagli aerei e dalle navi da guerra esistenti per l’apertura- terminato le operazioni in tutto il mondo”.
Sono molte le ricerche che dimostrano che l’esercito americano è uno dei maggiori inquinatori della storia. Ma di tutto ciò non si tiene conto negli studi sui cambiamenti climatici. La decisione degli USA di ritirarsi dal Protocollo di Kyoto del 1997, ha consentito loro di non dover dichiarare le emissioni dell’esercito.
“La nostra ricerca dimostra che per rendere conto dell’esercito statunitense come uno dei principali attori del clima, è necessario comprendere la catena di approvvigionamento logistica che rende possibile l’acquisizione e il consumo di combustibili a base di idrocarburi”, ha aggiunto Oliver Belcher, del Dipartimento di Geografia.
Tutto questo, ovviamente, senza tenere conto di un’altra forma di inquinamento, quella nucleare. Dal 1946 al 1958, gli Stati Uniti avrebbero effettuato almeno 67 test nucleari in quella che oggi è conosciuta come la Repubblica delle Isole Marshall. La potenza di questi test è stata equiparata a mille volte la bomba di Hiroshima. Le conseguenze sono ancora evidenti: su alcuni atolli settentrionali (Enewetak, Bikini, Rongelap e Utrok) la popolazione è dovuta fuggire a causa delle radiazioni emesse da queste prove. Avvelenamento da radiazioni, difetti alla nascita, leucemia, tiroide e altri tumori sono solo alcune delle conseguenze dannose e pericolose per la vita vissute dai residenti di quelle isole più di 75 anni dopo. Anche sul territorio nazionale i danni causati da questi esperimenti non sono pochi. Tra il 1944 e il 1977, nella riserva nucleare di Hanford, nello stato di Washington, sono stati rilasciati gas e fluidi tossici radioattivi.
Nel corso degli anni le basi militari sono diminuite da circa 2.000 a circa 800. Ed è aumentato l’interesse per l’efficienza e la tendenza ad utilizzare carburante più ecologico. “Ma, dopo l’11 settembre, il consumo di carburante è tornato ad aumentare e le emissioni sono cresciute, secondo la Crawford. La giustificazione è sempre basata sulla necessità di “anticipare” l’azione del potenziale nemico e sulla “paura della guerra” (che sia “con la Russia o la Cina, o qualsiasi altro possibile avversario” poco importa).
Per molti ricercatori, l’interruzione del ciclo della militarizzazione e delle emissioni potrebbe essere una delle strategie più importanti da adottare per rendere il mondo più pacifico. E meno inquinante.