Usa. Donald Trump e il dietrofront sulla Siria: la politica sulle montagne russe

di Gianluca Vivacqua –

Il 2019 era iniziato da poche ore quando il New York Times scriveva della decisione di Donald Trump di concedere quattro mesi di tempo al Pentagono per organizzare il ritiro delle truppe Usa dalla Siria. Una repentina decelerazione a poche settimane dal categorico annuncio pre-natalizio, in cui il presidente dava ormai per acquisito il ritiro entro un solo mese: era lo scorso 19 dicembre. Ordine irrevocabile – così sembrava – che ventiquattr’ore dopo aveva causato le dimissioni del segretario alla Difesa James Mattis. “Trump è un irresponsabile – questo è ciò che pensava il generale dei marines, lasciando il suo incarico, e non era l’unico – perché con la ritirata lascerà un vuoto in Siria, di cui approfitteranno l’Iran e la Russia”.
Forse neppure Mattis, le cui dimissioni sono state rese effettive proprio il 1 gennaio, sarebbe stato così precipitoso se avesse immaginato che Trump avrebbe inaugurato il nuovo anno con più miti consigli. Lo si è visto anche su un altro fronte caldo, quello del muro anti-immigrati, al confine col Messico: nel discorso alla Nazione, il primo del suo mandato, pronunciato l’8 gennaio, il presidente ha fatto un bagno di realismo ammettendo che, tramontata ormai da tempo la possibilità che il Messico si accolli tutta la spesa, i finanziamenti sono ben lungi dall’essere a portata di mano stante anche l’ostilità della nuova Camera, a maggioranza democratica. Trump esclude soluzioni di tipo dittatoriale, come una dichiarazione di emergenza nazionale che gli permetterebbe di ottenere subito fondi militari, e preferisce parlare piuttosto di un accordo finanziario che potrebbe trovarsi nell’ambito del nuovo NAFTA. Ma niente di immediato comunque, a parte la prosecuzione del braccio di ferro con i democratici in Congresso. Un sadico divertimento, il cui costo è l’allungarsi dei tempi dello shutdown.
Nulla di immediato, dunque, neppure sul fronte siriano. Ma ormai, auto-estromessosi Mattis, la via (d’uscita) per gli altri mattisiani era segnata: così il giorno dell’Epifania, si sono registrate anche le dimissioni del contrammiraglio Kevin M. Sweeney, capo dello staff del ministro della Difesa. Sweeney era entrato al Pentagono al seguito di Mattis, di cui è un amico di vecchia data, a fine gennaio 2017. Naturale che non poteva essere lui ad affiancare l’opera del nuovo segretario alla Difesa, Patrick M. Shanahan. Che è sì un ministro pro tempore, ma non è per questo che attualmente non occupa la scena. In questa fase di delicate fibrillazioni diplomatiche, effetto di ripensamenti così rocamboleschi, a tornare in pista è, ovviamente, il segretario di Stato, l’inossidabile Mike Pompeo, e l’emergente figura del consulente della Casa Bianca per la Sicurezza Nazionale, John Bolton. È toccato a loro, quasi nelle stesse ore, l’8 gennaio, mentre il presidente parlava agli elettori e ai non elettori, promuovere in Medio Oriente il verbo trumpiano sul ritiro americano dalla Siria. Sulla base di due versioni diverse, però: in Giordania (prima tappa di un tour che toccherà otto paesi), Pompeo ha ribadito la tesi del ritiro americano incondizionato; in Turchia, invece, Bolton ha mandato su tutte le furie Erdogan (che non l’ha neanche ricevuto) dichiarando ai giornali che il ritiro degli Stati Uniti è condizionato ad una precisa garanzia da parte di Ankara, quella di fornire protezione ai combattenti curdi siriani.
Alla fine della giornata su Twitter Trump arricchisce lo spartito con un nuovo promemoria: “Tutte le guerre iniziate sulla base di valutazioni sbagliate o per le quali stiamo ottenendo poco supporto dai paesi alleati arriveranno presto alla fine”. Uno scenario probabile potrebbe essere quello di un ritiro scaglionato, con tempi indefiniti, come consiglia la Francia. Ma sarebbero le stesse note già suonate in Iraq, che risuonano anche in Afghanistan.