Usa. Il “frutto avvelenato” di Andrew Jackson

di Giovanni Ciprotti

La Corte suprema degli Stati Uniti ha stabilito con 5 voti a favore su 9 che in quasi la metà dell’Oklahoma i nativi americani non siano soggetti alle leggi statali, ma soltanto a quelle tribali o a quelle federali. Un giudizio sorprendente, anche perché sei dei nove giudici sono di nomina repubblicana e uno dei cinque che hanno votato a favore, Neil Gorsuch, è stato nominato da Donald Trump nel 2017: la ratifica della nomina del giudice Gorsuch, accompagnato dalla fama di ultra-conservatore, era stata possibile soltanto dopo che il Senato Usa aveva modificato il criterio di voto, passando dai 60 voti di solito necessari (su 100 senatori) ai 50+1 (la cosiddetta “nuclear option”).
La sentenza, originata dal ricorso di un indiano Seminole condannato all’ergastolo per un reato commesso nel 1996, è basata sul riconoscimento della validità di un trattato stipulato nel 1833 tra gli Stati Uniti e la nazione Creek (o Muskogee), mai più modificato né invalidato. Il trattato assegnava agli indiani Creek un territorio che corrisponde a circa la metà dell’attuale stato dell’Oklahoma, a quel tempo non ancora costituito. L’articolo III del trattato del 1833 concesse agli indiani un diritto permanente sul territorio assegnato: “(…) the right thus guaranteed by the United States shall be continued to said tribe of Indians, so long as they shall exist as a nation, and continue to occupy the country hereby assigned them” (“il diritto in tal modo garantito dagli Stati Uniti sarà mantenuto per la suddetta tribù di indiani, finché esisteranno come nazione e continueranno ad occupare il territorio in questa sede ad essi assegnato”).
In quegli anni alla Casa Bianca sedeva Andrew Jackson, il primo presidente americano non appartenente alle élite della giovane repubblica. Jackson aveva origini umili ed era rimasto orfano giovanissimo; aveva studiato mentre lavorava ed era diventato avvocato. La sua brillante carriera fu alimentata anche dai successi militari: nel 1815 si era distinto durante la battaglia di New Orleans contro gli inglesi e negli anni Dieci dell’Ottocento aveva condotto diverse campagne per combattere le tribù Choctaw, Chickasaw, Cherokee, Creek e Seminole, insediate in quei territori sud-orientali degli Usa che oggi conosciamo come Carolina del Nord e del Sud, Georgia, Alabama, Tennessee e Florida.
Le glorie sul campo di battaglia e il conseguente prestigio portarono il generale Jackson a diventare, il 4 marzo 1829, il settimo Presidente degli Stati Uniti, primo presidente di estrazione popolare. Tanto amato dal popolo quanto poco in sintonia con i ceti alti, di cui diffidava. Probabilmente sarebbe andato d’accordo con l’attuale presidente in carica.
Il giorno del suo insediamento, la Casa Bianca fu invasa e devastata da una folla festante e scalmanata. Lo storico Arnaldo Testi descrive così quel giorno:
“Quando Jackson arriva alla Casa bianca, scoppia il pandemonio. Una marmaglia di campagnoli e ragazzi, donne e bambini, bianchi e negri, invade l’edificio e, fra spintoni, litigi e lazzi, fa man bassa dei rinfreschi preparati per i pochi e scelti invitati, rompe bicchieri e piatti, entra e esce dalle finestre invece che dalle porte. Si vedono nasi insanguinati, signore svenute. E in un angolo, pigiato contro un muro, lo stesso Jackson rischia di essere soffocato a morte”.
Nel 1830 il Presidente Jackson firmò l’Indian Removal Act, con cui dispose il trasferimento delle Cinque Tribù Civilizzate – così erano anche chiamate complessivamente le tribù Choctaw, Chickasaw, Cherokee, Creek e Seminole – in un territorio individuato ad ovest del fiume Mississippi, denominato Territorio indiano. Tale sarebbe rimasto fino al 1907, quando assieme ad altre aree limitrofe diede vita allo stato dell’Oklahoma.
Come effetto dell’Indian Removal Act, dal 1831 al 1838 – Jackson rimase in carica fino al 1837 – le tribù coinvolte furono trasferite, mediante diverse operazioni militari, dai territori originariamente occupati al territorio previsto dalla legge del 1830. Gli indiani percorsero a piedi le centinaia di chilometri dalle proprie terre ai nuovi insediamenti: freddo, stanchezza e fame decimarono le persone trasferite lungo quello che divenne tristemente famoso come “il sentiero delle lacrime”.
Per questo motivo il 23 giugno scorso i manifestanti del movimento “Black Lives Matter” hanno cercato di abbattere la statua dedicata ad Andrew Jackson eretta davanti alla Casa Bianca. La polizia ha disperso gli attivisti e impedito l’abbattimento. Donald Trump ha immediatamente annunciato un provvedimento che prevede fino a dieci anni di carcere per chi tenta di vandalizzare o distruggere i monumenti, le statue o altra proprietà degli Stati Uniti.
La sentenza della Corte suprema sulla giurisdizione dei Creek in Oklahoma potrebbe avere effetti di lungo periodo sul sistema giudiziario dello stato e Trump potrebbe essere suo malgrado coinvolto, soprattutto durante il suo eventuale secondo mandato, se a novembre dovesse centrare la rielezione. Chissà se oggi Trump è contento di aver difeso, poche settimane fa, la statua di Andrew Jackson!