di Giuseppe Gagliano –
Dietro gli annunci ad effetto e i dispiegamenti militari, si nasconde un’America inquieta, nervosa, alla ricerca di una nuova battaglia esistenziale. A rilanciare la miccia, ancora una volta, è Donald Trump, ex presidente mai davvero uscito dalla scena, che torna a cavalcare il linguaggio della deterrenza muscolare, questa volta contro l’Iran. Due settimane, ha detto, è il tempo massimo che potrebbe passare prima che vengano colpiti i siti nucleari iraniani. Ma non è solo la promessa di un attacco preventivo a preoccupare. È tutto l’apparato di mobilitazione politica, mediatica e militare che lo accompagna, un dispositivo che sembra non solo preparare un’azione militare, ma prefigurare un cambiamento di regime a Teheran. E con esso il ritorno del caos controllato in Medio Oriente.
Non siamo di fronte a una semplice esercitazione. Gli aerei da rifornimento in volo costante, le missioni cargo che si moltiplicano, le navi da guerra riposizionate tra Mediterraneo, Golfo Persico e coste orientali degli Stati Uniti, parlano una lingua inequivocabile: la macchina bellica americana è in movimento. Non per esercitare pressione diplomatica, ma per operare in profondità. L’operazione israeliana “Rising Lion”, che ha scatenato una nuova ondata di scontri con Teheran, funge da detonatore, ma la risposta americana va ben oltre il sostegno all’alleato israeliano. Qui si gioca un’altra partita: quella del controllo del futuro politico dell’Iran, con tutte le implicazioni regionali e globali che ne conseguono.
La narrazione dell’“imminente minaccia terroristica” è tornata al centro del discorso strategico statunitense. Le agenzie federali, guidate dal nuovo direttore del FBI Kash Patel, parlano apertamente della possibilità che cellule dormienti del Hezbollah e del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) siano pronte a colpire sul territorio americano dopo l’attacco a Teheran. Non si tratta di una novità assoluta. Da almeno un decennio, l’intelligence segnala la presenza di reti dormienti iraniane negli Stati Uniti e in America Latina. Ma è il contesto a rendere oggi queste allusioni particolarmente inquietanti.
La tesi, rilanciata da CBS News e da think tank neoconservatori, è semplice quanto efficace: gli Stati Uniti sono vulnerabili. L’“invasione silenziosa” attraverso la frontiera sud, la politica migratoria “lassista” dell’amministrazione Biden-Harris, avrebbe aperto le porte a soggetti ostili, potenzialmente infiltrati dall’Iran o da suoi alleati. In altre parole: dietro il dramma umanitario dei migranti si cela forse un’operazione di guerra asimmetrica.
Non è la prima volta che il nome dell’Iran viene associato a piani di attentati contro il suolo americano. L’uccisione del generale Qassem Soleimani nel 2020, voluta da Trump, ha innescato una spirale di minacce reciproche. Da allora, diversi dossier dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia indicano che Teheran avrebbe messo in campo operazioni per vendicare quella morte. Nel 2023, tre uomini uno dei quali membro del CGRI sono stati accusati di aver pianificato l’assassinio di Trump e altri alti funzionari. Un’accusa gravissima, passata però quasi sotto silenzio nei media generalisti. Perché?
La risposta va cercata nel doppio binario del discorso pubblico americano: da un lato si tende a minimizzare tutto ciò che rafforza la narrazione trumpiana, dall’altro si usa la minaccia esterna per giustificare l’espansione dell’apparato securitario. In mezzo, l’opinione pubblica, sempre più confusa e spaventata, accetta di buon grado la logica dell’“emergenza permanente”.
La questione migratoria viene così ripiegata su se stessa: da problema sociale e politico, diventa una minaccia esistenziale. Chi garantisce che tra le migliaia di migranti non vi siano elementi ostili infiltrati dai Pasdaran? La domanda è volutamente provocatoria, ma efficace. Non serve una prova concreta: basta il sospetto. Così si giustifica l’inasprimento delle misure di sorveglianza, l’aumento del budget per la sicurezza interna e, soprattutto, il ritorno a una strategia d’intervento militare preventivo. Trump, lo stesso uomo che ha chiuso le porte agli immigrati musulmani e latinoamericani, oggi si ripresenta come il garante della sicurezza nazionale, sostenuto da un discorso che unisce populismo, paura e geopolitica.
Dietro la possibile offensiva contro l’Iran non c’è la preoccupazione per una bomba atomica, della quale a oggi non esiste prova concreta, ma la volontà di modellare il Medio Oriente secondo lo schema americano-israeliano. Teheran rappresenta, nella visione trumpiana, l’ultimo bastione dell’opposizione strutturata a un ordine regionale dominato da Washington e Tel Aviv. Distruggere l’Iran, o quantomeno destabilizzarlo, significa spezzare l’asse sciita che va dal Libano allo Yemen, passando per l’Iraq e la Siria. Significa, soprattutto, impedire l’ulteriore penetrazione cinese e russa nella regione.
Mentre la macchina bellica si mette in moto, i media mainstream statunitensi tacciono o minimizzano. L’attenzione è orientata altrove: sull’economia, sul processo a Hunter Biden, sui reality politici. La narrazione dominante evita di dare spazio ai segnali inquietanti che provengono dal Pentagono o dall’intelligence. Gli allarmi lanciati da ex agenti della CIA come Sarah Adams, che ha parlato di centinaia di combattenti di Al-Qaida già presenti negli Stati Uniti, vengono ridicolizzati o ignorati. Ma l’assenza di informazione è, in questi casi, una forma sofisticata di manipolazione.
La “minaccia iraniana”, reale o amplificata che sia, serve oggi a tenere compatto un fronte interno spaccato e a proiettare verso l’esterno la tensione accumulata in patria. Trump rilancia la guerra per rilanciare se stesso. E lo fa evocando nemici esterni, complotti interni, tradimenti politici. Ma nel farlo rischia di trascinare gli Stati Uniti in un nuovo ciclo di guerra, con costi imprevedibili e conseguenze irreversibili.
E ancora una volta, a pagare il prezzo saranno i cittadini comuni: quelli che attraversano il confine, quelli che vivono nelle città vulnerabili, quelli che cercano sicurezza in un mondo che sembra aver dimenticato il significato stesso di “pace”.