
di Giuseppe Gagliano –
È un paradosso che risuona come un monito: mentre la retorica internazionale si riempie di inviti alla cooperazione globale e alla risoluzione pacifica delle crisi, gli Stati Uniti si apprestano a investire 1.700 miliardi di dollari nei prossimi trent’anni per modernizzare il loro arsenale nucleare. Un piano mastodontico, quasi irreale nei numeri, che però mostra quanto la percezione della sicurezza mondiale stia tornando a paradigmi pericolosamente noti, quelli della Guerra Fredda.
Non è solo una questione militare. È un progetto che tocca ogni angolo della società americana, dalle scuole elementari del Connecticut, dove General Dynamics si promuove come “azienda del futuro” insegnando ai bambini l’importanza della difesa nazionale, ai cantieri della baia di Narragansett, dove prende forma la nuova classe di sottomarini nucleari Columbia. L’educazione come leva di reclutamento, il lavoro come pilastro della strategia militare. Questo intreccio rivela una realtà poco raccontata: per alimentare la propria supremazia, Washington non si limita ad aggiornare i propri armamenti, ma ipoteca anche le future generazioni, coinvolte fin da giovanissime in un processo che plasma il tessuto economico e sociale del paese.
Il progetto non riguarda solo i sottomarini. La modernizzazione coinvolge ogni ramo dell’arsenale statunitense: nuove flotte di bombardieri strategici, missili intercontinentali e testate termonucleari. Ogni aggiornamento rappresenta una spesa colossale: basti pensare che un singolo sottomarino della classe Columbia costa in media 11 miliardi di dollari. Eppure, già ora, con i lavori appena iniziati, i ritardi e gli sforamenti di budget sono all’ordine del giorno. Il Pentagono, insieme ai suoi appaltatori, si muove in un complesso sistema di inefficienze strutturali che fanno lievitare i costi ben oltre le stime iniziali.
Prendiamo il complesso Y-12 di Oak Ridge, in Tennessee, destinato a lavorare l’uranio per le testate nucleari. Un progetto da 10 miliardi di dollari, già segnato da errori madornali: un tetto progettato male ha richiesto una correzione da 540 milioni di dollari. Non è un caso isolato, ma la norma di un sistema che sacrifica l’efficienza sull’altare della potenza militare.
A sorprendere però non è tanto la portata finanziaria del programma, quanto il silenzio assordante che lo circonda. In un’America divisa su tutto, dalla crisi climatica all’immigrazione, dalle spese per la sanità agli aiuti militari ai paesi alleati, l’enorme piano di riarmo nucleare non suscita alcun dibattito politico significativo. Semplicemente, non se ne parla. È come se la necessità di “essere pronti” a un conflitto futuro fosse una verità autoevidente, non passibile di discussione.
Eppure i rischi sono enormi. Questo piano rilancia una corsa agli armamenti che coinvolge inevitabilmente altre potenze nucleari. La Russia, con il suo arsenale strategico, e la Cina, con una flotta navale in rapidissima espansione, non resteranno certo a guardare. Pechino, in particolare, sta colmando il divario tecnologico e numerico con gli Stati Uniti, spingendo Washington a considerare inevitabile un confronto futuro.
Se il New York Times parla di ipoteca sul futuro, non è un’esagerazione. Questa modernizzazione nucleare non è solo un investimento finanziario, ma una scelta politica ed esistenziale che lascia in eredità alle future generazioni un mondo più pericoloso e militarizzato. “Le armi nucleari sono un deterrente”, si dice. Ma quale prezzo dovrà pagare la società americana per mantenere questa deterrenza? E, soprattutto, chi deciderà i limiti di questa nuova corsa?
Le immagini dei bambini di Preston, già “invitati” a considerare una carriera nel complesso industriale-militare, sono il simbolo più eloquente. Le risorse destinate al riarmo potrebbero finanziare programmi educativi, infrastrutture, sanità e ricerca per combattere sfide globali come il cambiamento climatico o le pandemie. Ma oggi l’America, anziché progettare un futuro sostenibile, sceglie di guardare indietro, con un piede saldo nelle logiche del XX secolo.
Washington crede di prepararsi a ogni eventualità, ma forse sta solo creando le premesse per una nuova, pericolosa, era di instabilità globale. I progressi degli ultimi quarant’anni sul controllo degli armamenti si stanno dissolvendo sotto i colpi di una politica che appare, oggi più che mai, miope e autolesionista.