di Giuseppe Gagliano –
All’inizio dell’estate 202, gli Stati Uniti sono nuovamente attraversati da una frattura interna che non è solo politica, ma ormai istituzionale e persino militare. Tornato alla Casa Bianca con una promessa di “restaurazione dell’ordine”, Donald Trump ha avviato un’offensiva senza precedenti contro le cosiddette “città santuario”, ovvero quei territori amministrati dai Democratici che si oppongono apertamente alle politiche federali anti-immigrazione. Lo strumento scelto per questa crociata è l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), appoggiato dalla Guardia Nazionale. L’obiettivo? Ristabilire il controllo federale con metodi da guerra civile a bassa intensità.
Tutto ha inizio il 6 e 7 giugno 2025, quando a Los Angeles l’ICE dà il via a una serie di retate nei quartieri di Paramount, Compton, Inglewood. Vengono arrestate 118 persone, perlopiù immigrati irregolari, alcuni senza precedenti penali. La reazione è immediata: esplodono proteste di piazza, scontri con la polizia, lacrimogeni, proiettili di gomma. Le scene ricordano le rivolte di Ferguson o Minneapolis. Ma questa volta, il nemico pubblico designato non è un singolo agente: è lo Stato federale stesso.
Il presidente risponde in perfetto stile trumpiano: ordina il dispiegamento di 2mila militari della Guardia Nazionale della California, bypassando le autorità locali. Né il governatore Gavin Newsom, né la sindaca Karen Bass hanno dato il via libera. La misura è un chiaro atto di forza. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth dichiara che, se necessario, interverranno anche i Marines di Camp Pendleton. La militarizzazione del conflitto migratorio è un fatto compiuto.
In gioco non c’è solo la gestione dell’ordine pubblico. C’è un confronto tra potere federale e autonomie locali, tra una presidenza che pretende obbedienza e città che difendono la propria identità politica e sociale. La nuova operazione si chiama “Safeguard”: una campagna di riconquista delle “zone perdute”, dove secondo Trump regnano anarchia, crimine e collusione ideologica con l’immigrazione clandestina. Le città santuario diventano il nuovo fronte interno.
Nel frattempo l’ICE si trasforma in un apparato repressivo senza freni. I suoi agenti possono agire in tribunali, scuole, ospedali. Non servono mandati, non sono previsti limiti territoriali, né particolari tutele giuridiche per le persone fermate. I numeri ufficiali sono oscuri, le operazioni avvengono spesso senza preavviso. I diritti civili diventano una variabile accessoria. Secondo alcune testimonianze, le retate avvengono anche nei pressi di rifugi per minori, parrocchie e centri per rifugiati.
La Corte suprema tace. Il Congresso è paralizzato. La Camera, a maggioranza repubblicana, sostiene Trump. Il Senato, controllato dai Democratici, non ha i numeri per fermare i decreti presidenziali. Le ONG fanno causa, ma intanto le deportazioni continuano. Le famiglie si nascondono. Gli attivisti denunciano intimidazioni e sorveglianza. In molti quartieri, le comunità latine vivono nel terrore, evitando scuole, ospedali, trasporti pubblici.
Trump non governa più un Paese unito, ma un mosaico di territori ostili. Sta creando un’arena politica in cui ogni crisi viene trasformata in guerra: guerra culturale, guerra giudiziaria, guerra migratoria. E in questa escalation, la divisione tra Stati “lealisti” e Stati “ribelli” si fa più netta. La posta in gioco non è solo l’elezione del 2028, ma il modello stesso di federalismo americano.
Nel suo discorso del 7 giugno Trump ha dichiarato che “L’America deve appartenere agli americani. Chi protegge gli stranieri illegali tradisce il suo Paese”. La sua retorica punta a cancellare le sfumature: patrioti contro traditori, ordine contro caos, sovranità contro globalismo. Un linguaggio binario che alimenta la polarizzazione e legittima lo scontro.
Le immagini dei soldati nelle strade di Los Angeles, dei migranti ammanettati sotto i riflettori notturni, dei quartieri sigillati, resteranno una ferita aperta. Per alcuni il segno di un ritorno all’autorità. Per altri l’ombra lunga di uno Stato sempre più autoritario. Una cosa è certa: l’America di Trump non cerca la riconciliazione, ma la vittoria. E in questa battaglia per la nazione, il diritto rischia di essere il primo caduto.