Usa. Russiagate: rapporto per il Senato, ‘ci fu una vasta campagna sui social degli hacker russi’

di Enrico Oliari

La telenovela del Russiagate si arricchisce di una nuova puntata, dopo che il Washington Post ha anticipato la bozza di un report per il Senato che dimostrerebbe l’intervento russo sui social con profili e post studiati per sostenere la corsa alla Casa Bianca di Donald Trump.
Della cosa se ne parla già da tempo, con 13 cittadini russi e tre imprese accusati in febbraio dal Dipartimento della Giustizia di Washington di ingerenza nella campagna presidenziale del 2016: nella fattispecie il gruppo aveva creato centinaia di account su Youtube, Facebook, Twitter e Instagram con lo scopo di coinvolgere cittadini su temi sensibili come la religione o l’immigrazione.
Il report che sarà presentato al Senato dove dovrà essere approvato ma dove i repubblicani hanno la maggioranza, è stato prodotto dal Computational Propaganda Project dell’Università di Oxford, ed ha preso in considerazione milioni di post pubblicati e poi finiti nell’indagine della commissione bicamerale d’Intelligence composta dal senatore repubblicano Richard Burr, che la presiede, e dal senatore democratico Mark Verner.
Ad operare sarebbero stati ancora una volta hacker russi dell’Internet Research Agency, società con sede a San Pietroburgo accusata delle interferenze nelle elezioni Usa. “Quello che è chiaro – riporta il documento consegnato alla commissione Intelligence – è che tutti i messaggi hanno cercato di favorire il partito repubblicano, soprattutto Donald Trump”.
Tanto per dirne una, vi sarebbe stato l’hackeraggio da parte dei russi di oltre 20mila mail dei democratici divulgate nel giugno 2016 che indicavano un’operazione del comitato centrale del Partito Democratico, il quale avrebbe dovuto essere neutrale, volta a screditare il candidato alle primarie Bernie Sanders a vantaggio di Hillary Clinton, uno scandalo che fece crollare in breve tempo il vantaggio dell’ex segretario di Stato su Trump di 9 punti.
Gli hacker russi hanno lavorato, ma in cambio di cosa? Questa è la domanda che ha aperto il vaso di Pandora del Russiagate, per il quale sono sempre più negli Usa ad ipotizzare la procedura di impeachment nei confronti del presidente.
Affaire che come una rete in mare ha preso e sta prendendo moli pesci a cominciare da Paul Manafort, l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump oggi dichiaratosi colpevole addirittura di cospirazione, risultato essere stato sul libro paga del partito filorusso dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, per delle consulenze da 12,7 milioni di dollari che interessarono il periodo dal 2007 al 2012. Una montagna di denaro evasa, ma anche tanto imbarazzo per l’allora candidato repubblicano: gli inquirenti ucraini avevano informato che da una loro inchiesta su società utilizzate dal cerchio magico di Yanukovich per mantenere un lussuoso stile di vita era saltato fuori un affare di 18 milioni di dollari per vendere partecipazioni della tv via cavo ucraina a una società creata in partnership tra lo stesso Manafort e un oligarca russo, Oleg Deripaska, vicino al presidente russo Vladimir Putin.
Un anno fa si era dichiarato colpevole l’ex consigliere presidenziale Michael Flynn, da subito silurato per aver promesso (in cambio di cosa?) all’ambasciatore russo a Washington Sergey I. Kislyak l’eliminazione delle sanzioni al suo paese. Flynn ha dichiarato al procuratore speciale Robert Mueller di aver ricevuto dal genero di Donald Trump, Jared Kushner, l’ordine di prendere contatto con i russi.
All’Attorney general, cioè al procuratore generale Jeff Sessions (durato in carica pochi mesi), Trump aveva chiesto bellamente di “bloccare l’inchiesta di Mueller”, cioè del procuratore speciale sul Russiagate: sotto giuramento ha alla commissione del Senato di avere avuto rapporti con i russi durante la campagna elettorale, mentre l’Fbi aveva le prove di almeno tre suoi incontri con l’ambasciatore Kislyak.
Poi vi è l’ex consigliere politico del presidente e figura di primissimo piano alla Casa Bianca Stephen Miller, il quale è stato interrogato da Mueller in merito al siluramento del 9 maggio 2017 del capo dell’Fbi James Comey, che stava indagando proprio sulla collaborazione dello staff del presidente con i russi.
Per gli inquirenti Donald Trump Jr. avrebbe incontrato il 9 giugno 2016 l’avvocata russa Natalia Veselnitskaya, considerata vicina al Cremlino, per ottenere informazioni utili a screditare in campagna elettorale la concorrente Clinton. Erano addirittura “avidi” di informazioni, ha detto Veselnitskaya in un’intervista alla Nbc.
Il genero di Donald Trump, Jared Kushner, il quale è anche consigliere del presidente, è sotto indagine per i capitali attratti dalla sua azienda immobiliare, la Kushner Companies, provenienti dalla Russia e dalla Cina.
Ed ancora, l’ex capo stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, il quale ha definito in una dichiarazione per un libro di Michael Wolff “sovversivo” e “antipatriottico” l’incontro tra il figlio di Trump, Donald jr., e un gruppo di russi avvenuto durante la campagna elettorale del 2016 alla Trump Tower.
Si stringe, insomma, il cerchio introno a Trump, il quale se al Senato potrà continuare a contare sulla maggioranza repubblicana e quindi sul blocco delle inchieste parlamentari, con l’insediarsi a breve della maggioranza democratica alla Camera conseguente alle elezioni di medio termine, avrà a che fare con continui attacchi e richieste di chiarimenti.