Usa. Segretario di Stato: il “change” è dalla parte dei repubblicani

di Gianluca Vivacqua

Democratici molto più restii ai subentri in corsa.
Dopo il presidente e il vicepresidente è il segretario di Stato (vale a dire il ministro degli Esteri, ma anche il guardasigilli) la figura più importante di un’amministrazione Usa. E sarà Anthony Blinken ad avere questo ruolo nell’amministrazione Biden. Il neopresidente, il più votato della storia Usa con 80 milioni di preferenze, lo ha ripescato dal suo bagaglio di viaggio del periodo obamiano: Blinken infatti era stato al fianco dell’allora vice di Obama come consigliere alla sicurezza nazionale, dal 2009 al 2013, per poi ricoprire la carica di vice segretario di Stato dal 2015 al 2017. Assume dunque il suo incarico avendo già un’esperienza pregressa nel campo: solo questo è un importante segnale di discontinuità rispetto all’era trumpiana, che esordì con un segretario di Stato “inventato” di sana pianta, Rex Tillerson, una carriera spesa interamente nella Exxon, e proseguì in quella casella, dop lì’interregno di John J. Sullivan, con l’ex direttore della Cia, Mike Pompeo, necessario “aggiustamento” in corsa.

A un’analisi storica più attenta si può dire che la “debolezza” e la “provvisorietà” di Tillerson, che pure era stato raccomandato da Condoleeza Rice in persona, rispondevano agli equilibri della Casa Bianca del primissimo periodo di Trump, quando regista incontrastato della politica estera del presidente era quello Steve Bannon artefice della vittoria elettorale del miliardario. In seguito, la rimozione di Tillerson e l’entrata in scena al suo posto di un “uomo forte” come Pompeo sembrò essere in una certa relazione con la fine dell’influenza bannoniana nello Studio Ovale. Forse qualche filotrumpiano potrebbe osservare che, in fondo, una girandola di nomine alla guida del Dipartimento di Stato lo si era visto anche ai tempi di Reagan, il presidente più ammirato da Trump. In effetti, anche all’epoca dell’uomo che vinse la guerra fredda, questa tessera dell’amministrazione non trovò pace fino al luglio 1982, quando ebbe finalmente un inquilino stabile nella persona di George P. Schultz (in precedenza c’erano stati Alexander Haig e Walter John Stoessel jr.). In generale comunque le statistiche degli ultimi cinquant’anni dicono che i repubblicani sono più propensi a cambiare in corsa i loro segretari di Stato, rispetto ai democratici. Partendo dall’inizio dell’amministrazione Nixon, infatti, dopo il mini-periodo di transizione di Charles E. Bohen, abbiamo William P. Rogers. Questi dura per tutto il primo mandato e viene anche confermato nel secondo, ma si ferma a metà, e all’inizio di settembre del ’73 viene sostituito da un altro facente funzione, Kenneth Rush, a sua volta rimpiazzato da Henry Kissinger (il responsabile di fatto della politica estera americana sin dall’inizio del secondo periodo nixoniano). Kissinger vive la dolorosa transizione da Nixon a Ford e conclude la presidenza repubblicana. Di Reagan si è già detto, e Bush padre si mantiene sulla sua scia: il suo James Baker prometteva di concludere il mandato, ma a pochi mesi dalla sua scadenza, nell’agosto del ’92, complici le elezioni che si approssimano, viene sostituito da Lawrence Eagleburger. L’eccezione al trend è rappresentata invece da Bush figlio, che per tutto il primo mandato si tiene Colin Powell, e per tutto il secondo si fa accompagnare da Condoleeza Rice.

Joe Biden. (Foto: Facebook).
Per quanto riguarda Biden, appare ovvio che l’augurio che egli si fa in queste ore, e ciò sarebbe naturalmente il secondo elemento di cesura col passato prossimo, è quello di avere un solo segretario di Stato per tutto il mandato. E poi magari cambiare al prossimo giro, com’è nella tradizione democratica. Il suo modello più immediato non può essere che Obama, che nella fase 1 – in tutta la fase 1 – ebbe in quel ruolo l’acerrima nemica delle primarie, Hillary Clinton. Nella fase 2 probabilmente sarebbe stato possibile avere anche una Clinton 2, se soltanto le intricate conseguenze dell’attentato terroristico all’ambasciata americana di Bengasi non avessero, in qualche modo, incrinato l’immagine della “lady di bronzo”. E così le porte si aprirono per John Kerry, l’uomo che era stato battuto dal presidente uscente Bush alle elezioni per la Casa Bianca del 2004 e che Biden vuole, ora, come inviato speciale del suo governo per il clima. Anche Kerry ebbe la possibilità di onorare il proprio incarico per tutta la durata del mandato presidenziale. Se è in cerca di modelli di stabilità in questo particolare settore della sua amministrazione, comunque, Biden può tranquillamente guardare anche a Bill Clinton: anch’egli, infatti, ebbe un solo segretario di Stato per ciascuno dei quadrienni in cui fu alla Casa Bianca. Parliamo, più precisamente, di Warren Christopher per il primo periodo e di Madeleine Albright per il secondo. Di sicuro, invece, al nuovo presidente non converrebbe guardare troppo a Jimmy Carter, la “pecora nera” della famiglia per quello che concerne il periodo preso in esame. Nell’unico mandato dell’ex governatore della Georgia, infatti, la casella della terza carica più importante dell’amministrazione cambiò guida per ben sette volte. Dopo l’interregno di Philp Habib, succeduto a Kissinger, Cyrus Vance dura dall’inverno ’77 fino alla primavera ’80. Poi, nell’arco di soli dieci giorni (2-8 maggio ’80), si scatena un vorticoso valzer di facenti funzione, ben cinque, in pratica uno ogni due giorni: Warren Christopher, David D. Newsom, Richard N. Cooper, ancora David Newsom e poi ancora Warren Christopher. L’impasse è superata con la nomina di Edmund Muskie. Se una presidenza si potesse giudicare dal numero dei cambi al verice del Dipartimento di Stato, allora si potrebbe dire che Carter è stato il più repubblicano dei democratici e Bush il più democratico dei repubblicani.