Usa. Trump, criptovalute e ombre cinesi

di Giuseppe Gagliano –

Il sospetto di manipolazione del mercato che circonda un investitore cinese nel gruppo crittografico World Liberty Financial, legato alla famiglia Trump, è solo l’ultimo episodio di una saga che intreccia potere politico, speculazione digitale e influenza straniera. Dietro la facciata tecnologica delle criptovalute si nasconde una rete di relazioni opache che riflettono i nuovi equilibri del potere globale.
La notizia è arrivata a New York come un fulmine. Un fondo con sede negli Emirati Arabi Uniti, l’Aqua1 Foundation, ha acquistato per cento milioni di dollari token emessi da World Liberty Financial, la piattaforma cofondata da Donald Trump Jr., Eric Trump e dall’imprenditore Zach Witkoff. Ma secondo quanto riportato da fonti vicine agli ambienti finanziari, l’operazione non è stata priva di ombre: l’investitore principale, riconducibile al settore tecnologico cinese, sarebbe già stato segnalato da diversi exchange internazionali per attività sospette di manipolazione dei mercati digitali.
Il gruppo Trump, che da mesi promuove World Liberty Financial come simbolo dell’“indipendenza finanziaria americana”, si ritrova così al centro di una contraddizione. Da un lato proclama la difesa della sovranità economica statunitense; dall’altro accetta capitali provenienti da circuiti globali difficilmente tracciabili, legati a Paesi che Washington considera rivali strategici. Non si tratta solo di un rischio reputazionale. È la rappresentazione plastica di come la frontiera tra finanza politica e finanza criminale si stia dissolvendo.
Il caso assume un significato che va ben oltre la cronaca economica. Le criptovalute, nate per sfuggire al controllo delle banche centrali, sono diventate uno strumento geopolitico. Gli Stati Uniti, che un tempo guardavano con diffidenza a Bitcoin e simili, hanno compreso che l’economia digitale è un campo di competizione strategica con la Cina. Pechino, dal canto suo, promuove il proprio yuan digitale e al tempo stesso mantiene legami con fondi e società che operano nei mercati decentralizzati globali, sfruttando la deregolamentazione per ottenere informazioni e influenza.
Nel caso specifico, l’ombra cinese porta i nomi di Bo Shen e di Fengfan “Grace” Zhang, due figure legate a fondi di venture capital come Fenbushi Capital e Global Palm Technologies, sospettati in passato di attività speculative coordinate. Il fatto che un capitale di questa provenienza sia confluito in un progetto americano guidato dalla famiglia dell’ex presidente degli Stati Uniti aggiunge una dimensione politica inquietante. Se confermata, l’operazione segnerebbe una delle più sofisticate forme di penetrazione economico-finanziaria cinese nei circuiti d’influenza vicini al trumpismo.
Sul piano economico, l’affaire mette in luce il carattere ambiguo della nuova finanza digitale. Dietro la retorica della libertà individuale e della disintermediazione, le piattaforme crittografiche sono diventate arene dove si incontrano oligarchi, fondi sovrani, intermediari opachi e influencer politici. L’Aqua1 Foundation, registrata negli Emirati Arabi, rappresenta perfettamente questa zona grigia in cui capitali del Golfo, interessi asiatici e ambizioni americane si fondono. Dubai e Abu Dhabi sono ormai hub globali della finanza non regolata, dove j con legami cinesi nel circuito finanziario dei Trump non può essere considerato un semplice incidente. Si colloca nel contesto della “guerra dei capitali” tra Washington e Pechino, dove la tecnologia blockchain è il nuovo campo di battaglia. L’America di Trump Jr. cerca di costruire un impero digitale che unisca investitori privati, ex militari, lobby energetiche e piattaforme di criptovalute; la Cina, invece, usa i propri imprenditori globali per testare la vulnerabilità del sistema occidentale, infiltrandosi nei nodi più sensibili della finanza decentrata.
Sul piano strategico, ciò che emerge è la trasformazione del denaro in strumento di potere immateriale. Le criptovalute non sono solo titoli digitali ma armi economiche. Permettono di aggirare sanzioni, occultare capitali e finanziare operazioni d’influenza. E quando queste reti si incrociano con il mondo politico, come nel caso della famiglia Trump, la linea tra finanza privata e geopolitica diventa invisibile.
La vicenda di World Liberty Financial, per ora, non ha prodotto conseguenze giudiziarie, ma i segnali sono chiari. Le autorità di vigilanza statunitensi e i grandi exchange hanno iniziato a rafforzare i controlli sulle operazioni connesse ai fondi arabi e asiatici. L’inchiesta potrebbe rivelarsi il primo tassello di una più ampia revisione della finanza crittografica americana, destinata a ridefinire i rapporti tra politica, capitale e sovranità digitale.
In questo scenario, la vicenda assume un valore simbolico: mostra come il potere politico statunitense, mentre denuncia la penetrazione economica cinese, ne resti allo stesso tempo attratto e dipendente. Il rischio è che la nuova frontiera della libertà finanziaria si trasformi nell’ennesima trappola dell’interdipendenza globale, dove le criptovalute diventano il nuovo linguaggio della geopolitica e il dollaro digitale una promessa di autonomia sempre più fragile.