Usa. Via il sorriso dal volto di Marchionne: Fca indagata per le emissioni

di C. Alessandro Mauceri

A gennaio, subito dopo essersi trasferito ufficialmente alla Casa Bianca, uno dei primi incontri del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump fu con i vertici del gruppo automobilistico FCA provenienti da Detroit. Al termine degli incontri entrambe le parti espressero estrema soddisfazione. Soprattutto il capo di FCA Sergio Marchionne si dichiarò soddisfatto dell’incontro.
Per il gruppo ex-torinese mantenere rapporti amichevoli con il presidente era importantissimo dopo che l’EPA, l’Agenzia della Protezione dell’Ambiente americana, aveva lanciato pesanti accuse circa presunte violazioni degli standard per le emissioni diesel delle auto del gruppo. Le accuse, infatti erano state lanciate durante la presidenza Obama, cioè prima che Trump dichiarasse di volerla stravolgere (come poi ha realmente fatto). Trump è “la preoccupazione numero uno dell’industria automobilistica” aveva scritto il Wall Street Journal. Timori che dopo quegli incontri parvero infondati. Marchionne in una nota diffusa al termine dell’incontro dichiarò: “Apprezzo l’attenzione del presidente nel rendere gli Stati Uniti un luogo ideale per fare affari. Non vediamo l’ora di lavorare con il presidente Trump e i membri del Congresso per rafforzare l’industria manifatturiera americana”.
Un apprezzamento che molti investitori in borsa parvero condividere e il titolo FCA ebbe un forte rialzo a Wall Street.
Sono bastati pochi mesi però per cancellare il sorriso dal volto dell’a.d. di FCA: il Dipartimento di Giustizia americano ha dichiarato di essere pronto a citare in giudizio il gruppo italo-americano per alcune “anomalie” sulle emissioni nocive riscontrate proprio dall’EPA. L’accusa è di aver violato, tra il 2014 e il 2016, le norme del Clean Air Act su 104mila autovetture fabbricate equipaggiate con un motore 3 litri a gasolio. Secondo l’accusa, FCA avrebbe fatto qualcosa di simile a quello di cui è stato accusato (e condannato) il gruppo Volkswagen: avrebbe montato sulle vetture un defeat device, un software capace di eludere i controlli sulle emissioni nocive.
La notizia, aggiunta alla apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea contro l’Italia, rea di aver “coperto” l’azienda sulla questione delle emissioni fuori dalla norma di alcuni modelli, ha avuto un effetto devastante sui rapporti tra il presidente Trump e i vertici di FCA.
Ma anche sull’andamento in borsa dei titoli che in un solo giorno hanno perso molti punti percentuali. Il rischio è perdere credibilità negli USA ma anche in Europa. Secondo molti analisti, tra cui Bloomberg, la causa intentata dal Dipartimento di Giusitizia americano nei confronti di FCA potrebbe avere effetti rilevanti anche perché, mentre Volkswagen nel 2015 aveva ammesso di aver utilizzato sistemi illegali per superare i test previsti dalla normativa Usa, FCA invece ha sempre negato di averlo fatto. Almeno fino ad ora.
FCA Us, il braccio americano del gruppo, ha spiegato che sono in corso “discussioni attive” con la divisione Risorse ambientali e naturali del dipartimento di Giustizia e ha aggiunto: “Nell’eventualità di una qualsiasi causa, Fca Us si difenderà con decisione, specialmente contro ogni accusa secondo cui l’azienda ha volutamente installato “defeat device” per barare ai test sulle emissioni”.
Incontri, scontri e dichiarazioni che sono solo la punta dell’iceberg: in questo momento negli USA è in atto una vera e propria guerra che vede sui due fronti colossi dell’economia globale. Da un lato il gruppo FCA (e alcune sue concorrenti come Ford e GM) che speravano di risollevarsi con il trasferimento negli USA e con la fusione con il gruppo Chrysler, ma che ha scoperto che Detroit, un tempo patria dell’industria automobilistica americana e mondiale, non riesce a riprendersi dopo il fallimento delle speculazioni finanziarie fatte da amministratori senza scrupoli.
Dall’altro c’è Trump che, dopo aver stravolto l’EPA e cancellato quasi tutte le promesse fatte ai suoi concittadini e al mondo circa la riduzione delle emissioni, si trova a dover fronteggiare l’attacco e la concorrenza dei vicini di casa, il Messico, e proprio nel settore automobilistico.
Secondo molti sarebbe questa la vera causa dell’ostilità del nuovo presidente degli USA nei confronti del paese centroamericano: la concorrenza sfrenata (grazie a costi della manodopera e spese generali molto più basse) che le industrie di automobili e parti e componenti oltre confine fanno a quelle presenti sul territorio a stelle e strisce.
Nell’ultimo decennio il Messico ha raddoppiato la sua produzione di automobili e da oltre un anno è il primo produttore americano (con 3.597.462 autoveicoli +0,9% sul 2015). Ma l’aspetto più interessante è che i maggiori produttori di auto in Messico sono proprio i grandi marchi americani Gm, FCA, Ford (cui si aggiungono Volkswagen e Nissan). E nel 2016, la stragrande maggioranza della produzione è stata destinata agli Stati Uniti (77,1%) e al Canada (8,9%). Un motivo di più per alzare muri alla frontiera. Non per fermare i flussi di migranti, ma per costringere le case produttrici a pagare un dazio o, in alternativa, a rilocalizzarsi negli USA.
A complicare la situazione il fatto che il gruppo FCA si è indebitato notevolmente per trasferirsi negli USA (dal 2009 ha investito 9,6 miliardi di dollari). Il rischio per FCA (e per gli USA) non sono le spese che potrebbero seguire alla procedura avviata dal tribunale americano (c’è chi parla di cifre nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari o, al massimo, qualche miliardo, ben lontane dalle multe che ha pagato Volkswagen, circa 25 miliardi di dollari tra cause, risarcimenti e adeguamenti dei modelli), ma l’ennesima sconfitta del settore automobilistico, un tempo vanto e forza trainante dell’economia americana e ora vittima della concorrenza asiatica e dei vicini di casa.
Rivali nei confronti dei quali il presidente degli Stati Uniti aveva già minacciato l’imposizione di dazi doganali del 35%. E c’è chi sostiene che anche la cancellazione degli USA dal TPP, l’accordo di libero scambio, non sia dispiaciuta ai produttori di automobili americani: Mark Fields, numero uno di Ford ha ringraziato apertamente Trump per averlo fatto. Specie dopo che la casa americana aveva deciso di cancellare gli investimenti per costruire un nuovo insediamento in Messico a San Luis Potosì e di spendere 700 milioni di dollari per ampliare la fabbrica di Flat Rock, in Michigan.