di Giuseppe Gagliano –
La richiesta del presidente venezuelano Nicolás Maduro all’Onu di intervenire sui rimpatri dei migranti venezuelani detenuti all’estero, in particolare i 238 connazionali incarcerati a El Salvador, è l’ultimo capitolo di una crisi che intreccia diritti umani, tensioni geopolitiche e accuse reciproche tra Caracas e Washington. La vicenda, che si inserisce in un contesto di crescenti frizioni tra il Venezuela e gli Stati Uniti, solleva interrogativi complessi: dalla gestione dei flussi migratori alla legittimità delle azioni di entrambi i governi, fino al rischio di un’escalation che potrebbe destabilizzare ulteriormente l’America Latina.
Dal punto di vista giuridico, la denuncia del Venezuela al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite si fonda su basi solide, almeno in linea di principio. La detenzione di 238 cittadini venezuelani a El Salvador senza processo e senza possibilità di difesa, come denunciato da Caracas, rappresenta una chiara violazione delle norme internazionali sui diritti umani, sancite da strumenti come la Dichiarazione di Vienna e il Programma d’azione del 1993, citati dall’ambasciatore venezuelano Alexander Yanez. Il trasferimento forzato di questi migranti dagli Stati Uniti a El Salvador, senza un regolare processo giudiziario, appare come una prassi che contravviene al diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda la protezione dei lavoratori migranti e il principio del non-refoulement, che impedisce di rimandare persone in luoghi dove potrebbero subire persecuzioni o trattamenti inumani.
Tuttavia, la posizione del Venezuela non è esente da contraddizioni. Il governo di Maduro, che si erge a difensore dei diritti dei propri cittadini all’estero, è stato più volte accusato di gravi violazioni dei diritti umani in patria, dalla repressione delle proteste alla detenzione arbitraria di oppositori politici. Questo doppio standard indebolisce la credibilità di Caracas sulla scena internazionale, alimentando il sospetto che la denuncia all’Onu sia anche un’operazione di propaganda per distogliere l’attenzione dai problemi interni e rafforzare la narrazione di un Paese sotto attacco da parte di potenze straniere.
Sul piano politico, la vicenda migratoria si intreccia con le tensioni geopolitiche tra Venezuela e Stati Uniti, che hanno raggiunto un nuovo picco con le dichiarazioni del Segretario di Stato americano Marco Rubio. Il sostegno di Washington alla Guyana nella disputa territoriale con il Venezuela, unito alle minacce di un intervento militare in difesa degli interessi della ExxonMobil, rappresenta una provocazione che Maduro non poteva ignorare. La risposta del presidente venezuelano, che ha definito Rubio “un imbecille” e ha riaffermato la sovranità nazionale con toni patriottici, riflette la strategia di lungo corso del regime bolivariano: utilizzare il nazionalismo e l’immagine di un nemico esterno per compattare il consenso interno in un momento di grave crisi economica e sociale.
Le accuse di Diosdado Cabello, che parla di un presunto piano “Crollo totale” orchestrato dall’opposizione di Maria Corina Machado con il sostegno degli Stati Uniti, si inseriscono in questa narrativa. Sebbene non siano state presentate prove concrete di questo piano, l’idea di un complotto per destabilizzare il Paese attraverso sabotaggi alle infrastrutture strategiche non è nuova e ha spesso funzionato come strumento di propaganda per giustificare la repressione interna. Tuttavia, le recenti manovre navali congiunte tra Stati Uniti e Guyana nelle acque vicine alla costa venezuelana, denunciate dal ministro della Difesa Vladimir Padrino López come una “provocazione”, sono un segnale concreto di escalation che non può essere ignorato. In un’area già segnata da instabilità – basti pensare alla crisi di Haiti o alle tensioni al confine tra Bolivia e i suoi vicini – un ulteriore inasprimento del conflitto potrebbe avere conseguenze devastanti.
La richiesta di Maduro all’Onu di intervenire per garantire i diritti dei migranti venezuelani è un appello che mette alla prova la credibilità delle Nazioni Unite in un contesto di crescente polarizzazione globale. La disponibilità del segretario generale Antonio Guterres e dell’Alto commissario Volker Türk ad attivare meccanismi per affrontare la questione è un segnale positivo, ma la capacità dell’Onu di mediare in una disputa così intricata rimane incerta. Da un lato, l’organizzazione deve affrontare le accuse di violazioni dei diritti umani da parte degli Stati Uniti e di El Salvador; dall’altro, deve fare i conti con un governo venezuelano che utilizza la causa migratoria per rafforzare la propria posizione politica, senza però mostrare un impegno reale per il rispetto dei diritti umani in patria.
La vicenda, inoltre, si inserisce in un quadro più ampio di scontro tra blocchi. Gli Stati Uniti, con il loro sostegno alla Guyana e le minacce di intervento militare, sembrano voler riaffermare la propria influenza in America Latina, in un momento in cui la regione è sempre più contesa da potenze come Cina e Russia, che hanno stretti legami con il Venezuela. Questo risiko geopolitico rischia di trasformare la crisi migratoria in un ulteriore terreno di scontro, con il pericolo che i diritti dei migranti, il cuore della questione, finiscano per essere sacrificati sull’altare di interessi più grandi.
La situazione descritta nell’articolo è un monito sulla fragilità della stabilità regionale in America Latina e sulla complessità della crisi migratoria venezuelana, che ha visto milioni di persone lasciare il Paese negli ultimi anni. La richiesta di Maduro all’Onu è un passo che, se gestito con trasparenza e buona fede, potrebbe portare a un miglioramento delle condizioni dei migranti venezuelani detenuti all’estero. Ma per farlo, è necessario che tutte le parti coinvolte, dal Venezuela agli Stati Uniti, fino a El Salvador e alla comunità internazionale, abbandonino la logica dello scontro e aprano un dialogo costruttivo.
Il rischio, altrimenti, è che la crisi migratoria diventi l’ennesimo capitolo di una guerra fredda regionale, con conseguenze drammatiche per i più vulnerabili: i migranti stessi. In un mondo sempre più interconnesso, la soluzione non può essere trovata nelle minacce militari o nelle accuse reciproche, ma in un impegno condiviso per il rispetto dei diritti umani e della sovranità nazionale, senza che l’una escluda l’altra. La palla, ora, è nel campo dell’Onu: saprà dimostrarsi all’altezza della sfida?