Venezuela. Maduro: burattino o burattinaio?

di Francesco Giappichini –

«Questi appelli fatui e irrazionali cercano di rompere la nostra unità e istituzionalità, ma non riusciranno mai a realizzarlo. Ratifichiamo la nostra assoluta lealtà al cittadino Nicolás Maduro Moros […], legittimamente rieletto dal potere popolare per il prossimo periodo presidenziale 2025-2031». Sono le parole del generale Vladimir Padrino López, a pochi giorni dal contestato voto venezuelano. Questi non solo occupa il Ministerio del Poder popular para la defensa (Mppd) del Venezuela dal 2014, ma di fatto rappresenta la Fuerza armada nacional bolivariana (Fanb) in seno al governo. L’incondizionato appoggio dei militari al presidente non avrà forse rappresentato una sorpresa; ma ha dato il via a un intenso dibattito tra gli analisti, circa la natura del blocco sociale su cui poggia l’esecutivo.
Secondo una linea di pensiero, il sistema di potere con al vertice il presidente Nicolás Maduro coinciderebbe con una dittatura militare, e il potere risiederebbe solo nell’esercito; mentre il capo dello stato sarebbe un mero prestanome. È la tesi del politologo tedesco Oliver Stuenkel, docente presso la Escola de relações internacionais della Fundação Getúlio Vargas (Fgv) di San Paolo: «Maduro è il volto visibile di un regime che è essenzialmente militare, e tuttavia si parla poco dei militari, poiché non sono ritenuti responsabili delle repressioni. In un certo senso Maduro è il parafulmine di un regime militare. E allo stesso tempo, l’esercito guadagna un sacco di soldi».
Secondo Stuenkel è di fatto impossibile prefigurare una frattura tra potere politico ed esercito. «L’unico scenario di rottura, possibile da immaginare, è questo: se vi fossero milioni e milioni di venezuelani mobilitati per le strade, e i militari decidessero di non affrontare questi cittadini. Tuttavia abbiamo avuto situazioni come questa in passato e i militari si sono schierati con il regime», nota lo studioso. Sulla stessa linea Rafael Villa, professore venezuelano di Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Universidade de São Paulo (Usp). Questi rileva come già agli esordi del chavismo i militari «hanno cominciato ad avere una forza politica attiva», e a controllare «posti chiave nello Stato», specie le «aziende in settori importanti come quelli dei minerali e del petrolio».
E Maduro ha rafforzato questa politica, tanto che il «Venezuela oggi ha il maggior numero di generali al mondo», 1300 a fronte dei 600 degli Stati Uniti. Altri esperti sostengono la tesi opposta, convinti che la politica abbia un assoluto controllo sulle Forze armate: il robusto servizio di sorveglianza all’interno delle caserme, implementato dai cubani e di recente anche dai russi, garantisce in pieno la lealtà dei militari. Javier Corrales, docente di Scienze politiche presso l’Amherst college di Amherst, in Massachusetts, ha dichiarato: «Le forze militari hanno aderito al regime per tutto questo tempo perché ci sono molte organizzazioni politiche e anche – è importante dirlo – molte forze cubane, che sono inserite nell’esercito, e capaci di scoprire qualsiasi problema possa verificarsi al suo interno. Per questo motivo c’è il timore che vengano scoperti complotti intestini, perché esiste un servizio d’intelligence interno molto strutturato».
Insomma l’autore del noto saggio “Autocracy rising” sulla deriva autoritaria di Caracas, sostiene che la proclamata «unión cívico-militar» non sia propaganda, ma una pratica instaurata decenni fa: il defunto presidente Hugo Chávez e l’omologo cubano Fidel Castro strinsero un accordo per monitorare le caserme, e individuare eventuali focolai di dissenso. Fu ricreato il clima di paura tipico del metodo castrista: nessuno si fida di nessuno, tutti temono di essere accusati di tradimento da delatori a caccia di benefici personali. La leadership militare è così sottoposta a un processo di costante epurazione, da cui ne esce solo chi resta fedele al regime; e ciò al netto del diffuso timore di perdere i privilegi (specie quelli frutto di corruzione) e dell’indottrinamento ideologico continuo.
Spiati sì, ma con la possibilità di arricchirsi. Non solo attraverso incarichi che permettono d’incassare tangenti, come il controllo di frontiere o siti minerari; ma anche con la gestione diretta di remunerative attività economiche. Una strategia a cui diedero impulso il fallito golpe contro Chávez dell’11 aprile 2002, la polarizzazione politica e un’opposizione per nulla dialogante. Che sin dall’inizio del millennio preferiva proporre continui Referéndum revocatorio, anziché accettare sconfitte elettorali decretate dalle classi sociali più povere. Altri analisti osservano che inizialmente le Forze armate erano risparmiate dalle repressioni di piazza e senza macchiarsi di sangue riuscivano a conservare una certa aura di neutralità: il lavoro sporco era a carico soprattutto della Guardia nacional bolivariana (Gnb), la polizia militare.
Poi però inizia a comparire in prima linea anche l’esercito, a testimonianza del suo coinvolgimento col regime, e della sottomissione al partito di governo. E ciò è analogo a quanto sta accadendo col Cuerpo de policía nacional bolivariana (Pnb). La polizia civile partecipa sempre più ad attività securitarie, è stata integrata nella nomenclatura al potere anche a livello esteriore e d’immagine, e Maduro stesso ha declamato una «unión cívico-militar-policial perfecta». Una scelta obbligata, causa la drastica diminuzione dei militari, per via della crisi economica. Del resto, come rileva il politologo Benigno Alarcón Deza dell’Universidad católica Andrés Bello, l’«apparato di polizia è superiore rispetto ai militari: non in capacità di fuoco, ma di uomini»; oggi l’Ejército bolivariano (Eb) conta 98mila effettivi, ed è lontano dai numeri del passato.
E tuttavia è chiaro che lo stesso calo di legittimità dei governanti esige la promozione e la valorizzazione delle forze di sicurezza. In questi giorni il dibattito si è poi centrato sulla discutibile mossa di Washington, che ha riconosciuto lo sfidante antichavista, l’ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, come vincitore delle presidenziali del 28 luglio. «È evidente agli Stati Uniti e, soprattutto, al popolo venezuelano che González Urrutia ha ricevuto il maggior numero di voti nelle elezioni presidenziali venezuelane del 28 luglio», ha dichiarato il segretario di Stato statunitense Antony Blinken. Si profila dunque un riconoscimento internazionale parziale per chi guiderà il Paese, mentre la decisione della Casa Bianca è stata fatta propria da Perú, Argentina, Uruguay, Costa Rica, Ecuador, Panama. E al netto delle differenze tra i due casi, ha avuto buon gioco il leader della Revolución bolivariana nel richiamare la parabola dell’ex presidente dell’Assemblea nazionale Juan Guaidó. «Vogliono imporre nuovamente la triste storia di Guaidó. Guaidó 2.0» ha affermato, ricordando la figura del presidente ad interim, auto-proclamatosi, solo parzialmente riconosciuto, e contestato da chi deteneva e detiene il potere.