1929: Hessel insegna a non arrendersi

di Giovanni Ciprotti –

hessel grande“Indignatevi!”, aveva scritto Stéphane Hessel – nato tedesco nel 1917 e poi naturalizzato francese, partigiano nella resistenza in Francia e poi diplomatico di carriera – nel suo pamphlet che aveva ispirato i movimenti degli arrabbiati di mezzo mondo, dagli “Indignados” spagnoli agli “Occupy Wall Street” statunitensi. In Italia abbiamo assistito al travolgente successo del Movimento 5 Stelle, quasi un antesignano degli altri movimenti di contestazione.
Due anni dopo quel successo e poco prima di morire a 95 anni, Hessel ha lanciato un altro appello con il suo ultimo libro: “Non arrendetevi!”.
Ha continuato a incoraggiare le persone – e in particolar modo i giovani – ad indignarsi per le ingiustizie che ancora infestano il mondo, ma al tempo stesso ha messo in guardia dalla protesta come unica e ultima azione di una mobilitazione che, ancorché comprensibile, si rivelerebbe infine inutile se non venisse accompagnata dalla proposta.
La sollevazione popolare potrebbe cedere alla tentazione di rovesciare l’ordine costituito, sospinta dalla disperazione per la situazione sociale, enormemente peggiorata a causa della crisi economica e dal disgusto per classi dirigenti che si sono rivelate nel migliore dei
casi inadeguate e nel peggiore corrotte e rapaci. Ma per Hessel la rivoluzione non è mai risolutiva. Incita ad entrare nei partiti.
Occorre – sostiene – “utilizzare le forze politiche esistenti. Meglio stare dentro che fuori. Ai miei amici ripeto sempre la stessa cosa: se volete combattere i problemi, se volete che le cose cambino, nelle democrazie istituzionali nelle quali viviamo il lavoro deve essere
fatto con l’aiuto dei partiti. Perfino coi loro difetti, le loro imperfezioni, le loro insufficienze”.
Era molto preoccupato Hessel; metteva in guardia dai populismi, dai nazionalismi e dai movimenti xenofobi che, soprattutto nei periodi di grave crisi come quella che stiamo vivendo, possono favorire l’instaurarsi di regimi autoritari. Il ricordo di Hessel correva agli
anni Trenta del XX secolo e alle tragedie economiche, sociali e politiche provocate dalla grande depressione seguita al crollo di Wall Street nel 1929. Allora, l’Europa e l’America reagirono in modo diverso: in Europa si assistette all’avvento del nazismo in Germania, del franchismo in Spagna e al rafforzamento del fascismo in Italia; negli Stati Uniti le misure del presidente Herbert Hoover – che oggi chiameremmo di “austerity” – non riuscirono a risollevare l’economia e solo nel 1933, quando la disoccupazione tocco il 25%, l’elezione di Franklin Delano Roosevelt e il suo New Deal restituirono agli americani la speranza nel futuro e spezzarono la spirale recessiva che da quattro anni stava strangolando l’economia statunitense.
Ma il New Deal, nonostante le ingenti risorse economiche stanziate dallo Stato federale, la massiccia mobilitazione popolare e l’alto gradimento di cui costantemente godette Roosevelt per i suoi primi due mandati, non riuscì a riportare il tasso di disoccupazione ai livelli
pre-1929 (era circa il 5%): nel 1938 la disoccupazione era ancora poco meno del 19% e l’anno successivo, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, era ancora del 17%. Per tornare al di sotto del 10% e poi diminuire ancora sensibilmente si sarebbe dovuto attendere l’entrata in guerra degli Stati Uniti: durante la seconda guerra mondiale, l’asservimento della intera economia allo sforzo bellico consentì di raggiungere il pieno impiego.
E che ci fosse un nesso diretto tra le vicende belliche e la buona salute della economia statunitense lo conferma un rapporto della Commissione Bancaria del Senato statunitense, che nel 1945 prevedeva sei-sette milioni di disoccupati per l’inverno 1945-’46, il che avrebbe
riportato il tasso di disoccupazione intorno al 14%, più o meno allo stesso livello che aveva avuto nel 1937. Nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti riuscirono a mitigare i contraccolpi sull’occupazione dovuti alla smobilitazione post-bellica grazie al varo del Piano Marshall per la ricostruzione europea; ma non si può dimenticare l’importanza della Guerra fredda tra i motivi che hanno consentito all’economia americana di godere di un quarantennio di sviluppo economico e
di un tasso di disoccupazione sempre al di sotto del 10% – tranne una brevissima parentesi nel 1983.
I fascismi in Europa e la grande depressione, nefasti figli del 1929, sono stati sconfitti combattendo due guerre, di cui solo la prima guerreggiata: la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda.
Anche se si moltiplicano i raffronti della situazione odierna con la Grande Depressione originata dal crollo del 1929, gli attuali indicatori economici non sono negativi come ottanta anni fa – la disoccupazione media europea oscilla tra il 10 e il 15%.
Speriamo di non peggiorare ulteriormente, ma soprattutto speriamo che non siano necessarie altre guerre mondiali per risolvere la crisi economica, sociale e anche politica che sta destabilizzando la società europea dal 2008.